Vegetarianesimo e ricerca spirituale

Categoria : Spiritualità e religioni

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Nei tempi passati il vegetarianesimo veniva praticato esclusivamente dagli asceti, da certi monaci e studiosi o prescritto come terapia.
Oggi, tuttavia, la situazione sociale è cambiata: il polo da cui si dipana e intorno a cui si raccoglie il vivere è il dio Denaro, non il Sacro, e l’uomo che non abbia perso l’aspirazione al Vero –laico o religioso che sia– è chiamato ad un maggior impegno.

Il vegetarianesimo va dunque rivisto: esso non è solo da considerarsi alla stregua di un valido strumento di purificazione, ma anche come una possibile testimonianza di umile comunione con la vita e di emacipazione dal plagio del “Signore degli Inganni”.

Persino Shri Ramana Maharshi, il grande saggio dell’India moderna, riconosciuto dall’Hinduismo tradizionale e notoriamente poco incline ai facili sentimentalismi, scrisse in Chi sono io?, una delle sue rare opere: «Di tutte le regole restrittive quella che concerne l’assunzione di cibo sattvico [equilibrato n.d.r.] in quantità moderate è la migliore. Osservando questa norma si aumenta la qualità sattvica della mente, e ciò è di aiuto nella ricerca del Sé»1.

Il cibo sattvico (cereali, verdure, frutta, latte) è il cibo che, nutrendo senza eccitare, favorisce lo spontaneo manifestarsi dell’Intelligenza del Cuore2; il cibo rajasico alimenta le passioni e l’attività; il cibo tamasico nutre l’inerzia, l’indifferenza, la crudeltà3.

Rispetto al cibo vi sono due prospettive fondamentali: una tecnica –ed è quella a cui si riferisce Shri Ramana nel passo sopracitato–, l’altra etica e morale, che non può e non deve essere trascurata4.

In questi momenti di particolare confusione e disordine, ci si chiede come mai in alcuni uomini sorga spontaneo il rifiuto di aberrazioni quali la miseria del Terzo Mondo, la vivisezione, l’ecatombe industrializzata di milioni di animali, il commercio di organi umani che si trincera dietro alibi di ipocrita umanitarismo5, la fecondazione in vitro, l’aborto generalizzato, la clonazione, ecc., e come mai, invece, per molti altri tutto ciò sia normale o, tutt’al più, espressione d’un male trascurabile e necessario. A tal proposito, per esemplificare l’atteggiamento che l’ipocrisia assume nei confronti del male, non si può non ricordare la teoria del «Destino Manifesto» che i politici di Washington, nel secolo scorso, inventarono per giustificare il genocidio dei popoli Pellerossa. Essi, sentendosi portatori di una civiltà numericamente e pragmaticamente superiore, ritenevano che gli Europei e i loro discendenti fossero «chiamati dal destino a governare tutta l’America»6.

C’è un nesso, sembra, tra il cibarsi di carne prodotta innaturalmente, satura di dolore, la miopia di chi considera la caccia moderna uno sport nobile ed “ecologico”, il fruire della svariata gamma di beni superflui e spesso nocivi che la società “progredita” offre, e la violenza e l’irriflessiva mancanza di saggezza che conducono all’ingiustizia, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e infine alla guerra: ultimo stadio di un male che inizia nella disarmonia dei piccoli gesti quotidiani.

D’altra parte, se “intelligenza” significa, come l’etimo suggerisce, «capacità di cogliere i nessi esistenti tra i vari momenti dell’esistenza» (Vocabolario etimologico Zanichelli), se ne deduce che l’uomo è tanto più intelligente quanto più comprende che ogni aspetto della Manifestazione è in relazione con la totalità, per il tramite dell’etere, il quinto elemento. Ciò non equivale a credere che la Manifestazione sia in un rapporto di interdipendenza con Shunyata o Immanifesto, il quale comprende e vivifica i tre mondi (fisico-grossolano, sottile, causale), pur restando incondizionato. Tale “intelligenza”, dunque, non elimina la gerarchia, ma ne restaura il vero significato di linguaggio relativo basato sulle differenti capacità degli enti di riflettere l’Assoluto.

Shunyata7 è un termine buddhista che può, se non spiegato, dar adito a fraintendimenti; esso si riferisce all’Assoluto in quanto vacuità di tutto ciò che ha nome, forma e limite dal punto di vista della Bodhi, la Conoscenza pura. Personalmente, in linea con la Tradizione hindu, ritengo più corretto sostituirlo con termini quali: Parabrahman, Assoluto ineffabile, Purna, la Pienezza, Paramatman, il supremo Sé, ecc.8.

Un buon esempio di intelligenza ci viene dal grande poeta e drammaturgo William Shakespeare che mise in relazione l’incapacità di apprezzare la musica col ladrocinio e l’omicidio. E come non citare il celebre pensiero di Confucio: «Se c’è pace nel cuore, c’è pace nella famiglia, nel villaggio, nella nazione, nel mondo»?

Nella tradizione Sikh v’è un episodio che illustra in modo significativo come l’occhio dell’Intelligenza del Cuore sappia vedere connessioni e implicazioni precluse all’occhio profano, tutto volto all’utile e al sensibile. Si narra che Baba Nanak –il Sat Guru fondatore della fede Sikh–, giunto all’antica città di Saidabad, preferì l’umile accoglienza del falegname Bhai Lalu all’ospitalità sfarzosa del governatore Malik Bhago; questi, dopo aver inoltrato reiterati inviti, spazientito ed offeso, decise di andare di persona ad invitare il Saggio e ad interrogarlo circa il suo irrazionale comportamento. Ma, nonostante ciò, Baba Nanak rimase fermo nel suo rifiuto e, affinché se ne comprendesse il motivo, chiese che gli venisse contemporaneamente portato un po’ di cibo del governatore e del suo amico falegname. Con una mano prese la carne di Malik Bhago e con l’altra un pezzo di pane di Bhai Lalu, poi strinse: dalla prima scese sangue, dalla seconda latte. Con voce soave, il Sat Guru disse: «Ora sapete perché non potevo mangiare il cibo del governatore: in esso c’è il sangue dei poveri e lo sprezzo per la creazione, mentre è dal lavoro umile e onesto di chi ama la vita e il Creatore, che sgorga il nutriente latte della devozione»9.

Dovremmo tutti chiederci, di fronte al nostro cibo quotidiano, quale liquido ne spremerebbero le sante mani di Guru Baba Nanak: sangue o latte?

Essere vegetariano oggi è quindi anche un modo per prendere consapevolezza delle comuni radici e dell’unico tronco dei vari rami, foglie e frutti dell’Albero della Vita; il che implica che noi non potremo mai essere in pace se non includeremo in ogni nostro gesto o pensiero le diverse decine di migliaia (o forse milioni) di bambini, uomini e donne che ogni giorno, nel mondo, muoiono di fame, di aborto, di sevizie o per torture, incidenti stradali (sacrifici al dio Macchina), inquinamento, etc. L’uomo delle ricche città d’Europa e degli Stati Uniti dovrebbe sapere che per produrre la carne di cui egli si ciba vengono disboscati migliaia di ettari di foreste (fonti preziose di sostentamento per gli indigeni e di ossigeno per l’atmosfera) da adibire a culture foraggifere. Chi indossa una costosa pelliccia dovrebbe informarsi su quali atroci sofferenze debbono subire gli animali affinché egli possa soddisfare le proprie egoistiche e superflue esigenze di benessere10. I beneficiari di trapianti è necessario che sappiano come un organo vitale, per essere utilizzabile, debba essere strappato ad un uomo “vivo”, il quale viene dunque torturato ed ucciso proprio nel momento in cui andrebbe maggiormente rispettato.

Occorre infine rammentare che in soli due casi all’uomo è consentito uccidere: per legittima difesa o necessità di sopravvivenza e per assolvere al proprio dharma, come nel caso dello kshatriya Arjuna nella Bhagavad-gita11. La carne di oggi non è la stessa di cui si cibava, considerandola sacra, l’Indiano d’America, per il quale la caccia era un’attività sacrificale e necessaria, e nemmeno può essere considerata la stessa di cui si cibavano parcamente le nostre popolazioni contadine di cinquant’anni fa; essa è, per lo più, il cibo del piacere e dell’incoscienza di un Occidente spiritualmente decaduto, ricco e indifferente, che si finge cieco di fronte all’orrore dell’evidenza di un’abbondanza fondata sulla miseria di due terzi del mondo.

Purtroppo una deviata tradizione antropocentrica –contrapposta all’autentica Tradizione teocentrica– ci ha abituati a fraintendere il nostro retaggio di custodi della vita, e così, invece di soccorrere i più deboli e di favorire la giustizia, abbiamo finito col trasformarci in despoti. Di certo assai più saggio è l’atteggiamento di chi, dal punto di vista relativo dell’individualità, si considera una molecola in un organismo, o una creatura attenta a rispettare le leggi del Creatore, e dal punto di vista esoterico, dell’Essenza, sa di non essere estraneo all’Assoluto12.

D’altra parte bisogna considerare che, paradossalmente, chi si proclama non violento è spesso, in buona o cattiva fede, più violento di chi lo è manifestamente. C’è infatti un fanatismo del vegetarianesimo che può essere tanto deleterio quanto il fanatismo di chi antepone la consuetudine e il piacere di mangiare carne a qualsiasi considerazione13. E c’è una retorica del bene che è forse peggiore del male dichiarato.

È inoltre del tutto inaccettabile il sentimentalismo irrazionale di molti vegetariani che assolutizzano la non-violenza perché, essendosi esclusivamente identificati con gli involucri corporeo e psichico, temono di morire. Essi confondono la violenza con l’uso legittimo della forza, e dimenticano che basta andare nel proprio orto a vangare per sterminare migliaia di esseri viventi. Vita e morte sono dunque due facce della stessa medaglia (la Manifestazione o Creazione) che non sta nelle nostre mani; ma riguardo all’uccidere bisogna attenersi all’indispensabile14.

Oggi persino i cibi più semplici –integrali, biologici e vegetariani– sono divenuti oggetto di speculazione economica e trasformati in moda. Spesso tale speculazione si cela dietro le parole altisonanti e vuote del “missionario” naturista che predica come supremo valore il raggiungimento di un fragile ed egoistico pseudo-benessere.

Chi vuole convincere e ottenere, direbbe un taoista, non convince e non ottiene; e chi, in nome dello “Spirito”, antepone il guscio all’Onnipervadente, assomiglia al cieco che pretende di poter guidare i vedenti. Se ne deduce che il modo migliore di beneficiare se stessi e gli altri con la pratica del vegetarianesimo sia, innanzitutto, quello di viverlo senza astio e senza aspettative nei confronti di chicchessia, come un’espressione spontanea della propria intrinseca sensibilità, o come un utile supporto all’ascesi.

Dovremmo sempre ricordare che amare la Fonte implica amare e comprendere tutto ciò che da questa scaturisce.
Ecco un altro paradosso: amare il “nemico”, rispettare ed accettare il diverso da sé, pur senza perdere le proprie caratteristiche distintive. Questa rispettosa accettazione della diversità è ben lontana dai concetti profani di unità, uguaglianza, democrazia, o da utopie quali governo e ordine mondiali, stati uniti del mondo, ecc. Quelli e queste fanno leva su emozioni che non reggono ad un approfondito esame dell’intelligenza.

L’Amore «che move il sole e l’altre stelle» non è, come superficialmente si è portati a credere, un’emozione o un mero sentimento umano (in tal caso sarebbe cosa effimera, incompleta e di poco conto), ma il raggio di Luce che unisce il cuore dell’ente all’incorruttibile Cuore del Sole: il Centro, l’axis mundi, senza la memoria del quale tutto è destinato a perire. Se ci lasceremo guidare dall’Amore, non potremo mai deviare dal retto cammino e la pace (shanti) regnerà in noi. Saper riconoscere la Sua Voce è l’impegno di tutta una vita.

[da estovest.net – Giuseppe Gorlani]

Note

1- Chi sono io? – Nan Yar?, Bhagavan Shri Ramana Maharshi, a c. dello scrivente, Rimini, Il Cerchio, 1995.

2- Cuore viene qui scritto con la maiuscola poiché non ci si riferisce all’organo fisiologico, ma, in accordo con la Tradizione sapienziale universale, al Centro dell’Ente, la sede dell’Io ontologico, il Divino. In questo Centro (anahata-cakra) risuona la Voce del Supremo (Shabda-Brahman) ed è quindi esatto parlare di Intelligenza del Cuore. Esso viene raffigurato graficamente da un esagramma (Sigillo di Salomone), poiché qui si incontrano e si fondono il Brahman e l’Atman, Shiva e Shakti.

3- Sattva, rajas e tamas sono i tre guna, ovverosia le tre qualità fondamentali per mezzo delle quali, secondo il darshana Vedanta (utilizzante la cosmogonia Samkhya), si manifesta l’Uno, il Principio Primo (Ishvara, Brahman saguna, il Dio con attributi). I tre guna corrispondono anche ai tre mondi, corpi o stati dell’Essere: causale (prajna), sottile (taijasa), grossolano (vishva). Per riassumere: nutrendosi con cibi sattvici, si favorisce il passaggio della coscienza dal manas grossolano a quello sottile, sino al risveglio della stessa nel corpo causale, dove, essendosi tutte le facoltà umane raccolte in un silenzio adorante, si può più facilmente essere toccati dalla Grazia del Trascendente. È ovvio che il cibo ed altre pratiche ascetiche non possono condizionare in modo assoluto l’intervento della Grazia (da alcune scuole shivaite detta «discesa di Potenza»), né, per dirla in altro modo, condurre di per sé alla Realizzazione; e tuttavia esse appartengono a quel sacrum-facere, o a quel “bussare” evangelico che dà valore alla vita dell’uomo.

4- «Per essere vegetariani bisogna credere anzitutto in certi valori etici e metafisici, piuttosto estranei a questa cultura, e adeguarvi una disciplina igienica, uno stile personale di vita. […] Il vegetarianesimo familiare è un’incrinatura sensibile dell’uniformità sociale, una piccola porta chiusa al male, in questa universale condanna a essere tutti uguali a servirlo» (da Giovanni Marinangeli, Guido Ceronetti il veggente di Cetona, Isola del Piano 1997, Fondazione Alce Nero, p. 147).

5- Non sarà superfluo sottolineare che gli organi vitali per essere utilizzati debbono essere espiantati ad uomini vivi, cioè ad uomini in cui il cuore batta e il sangue circoli. Con l’intento di superare questo “cavillo”, certe lobby medico-politiche premono perché venga approvata una definizione di morte ad usum delphini, come se la morte fosse un concetto da definire e non una realtà. Riguardo alla cosidetta “morte cerebrale” irreversibile, il Dr. David W. Evans, scienziato di chiara fama, in un testo presentato al Comitato ristretto della Commissione Affari Sociali del Parlamento italiano, sostiene: «[…] non esistono prove o serie di prove che possano stabilire con il necessario grado di certezza che il cervello sia veramente morto in un qualsiasi momento prima della cessazione definitiva della circolazione corporea […]. Il concetto che la morte del cervello si possa stabilire prima dell’arresto cardiaco definitivo non ha validità scientifica». Nonostante il parere contrario di emenineti scienziati, due «Testi unificati», detti del «silenzio-assenso» e della «privatizzazione e import-export» stanno per essere sottoposti al voto del Senato. Se verranno approvati, l’inesistente “morte cerebrale” assumerà veste “legale” e chiunque non dissentirà anticipatamente diverrà un potenziale donatore, che lo voglia o meno. Gli uomini-fantasmi del Kali-yuga avranno così fatto un ulteriore passo in avanti verso la barbarie totale.

6- Dee Brown, Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, pp. 22-23, Oscar Mondadori 1985. La storia recente rigurgita di violenze e genocidi; nell’acefala opinione pubblica (che secondo molti autori è pilotata da un’oligarchia occulta) alcuni, però, sono orripilanti –quello nazista–, altri meno: quello stalinista, quello cinese in Tibet, quello americano perpetrato sui popoli nativi, quello russo in Afghanistan, per non nominarne che pochi. Cfr. Yves Ternon, Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo, Corbaccio 1997.

7- Scrive Guenther, cit. in La Tradizione Tantrica di A.Bharati, Ubaldini ed., Roma 1977: «Di solito, shunya si traduce ‘vacuità, vuoto’. Ma molte ragioni si oppongono a questa traduzione. ‘Vuoto’ ha, per noi, un sapore concettuale di cavità, qualcosa di prevalentemente negativo. Ma shunya significa esattamente il contrario, lo si potrebbe soltanto descrivere come né suscettibile di ulteriore empimento né suscettibile di diminuzione […]. È dunque un plenum».

8- Si può ipotizzare che non vi fossero vere e proprie differenze tra l’insegnamento del Buddha e il pensiero delle Upanishad, ma sfumature prospettiche sull’Assoluto. Nel primo il Trascendente è Shunya, il Vuoto in cui svanisce la transitorietà degli aggregati e delle idee-cose; nel secondo, pur essendo ammessa la relativa realtà della Manifestazione (Maya) e accettato il “vuoto” come momento dialettico sulla via dell’ascesi, l’Assoluto è concepito quale Intelligenza, Pienezza e Bene infiniti, contemporaneamente immanenti e trascendenti. Il Buddhismo –sia realistico che idealistico– sviluppatosi in seguito viene reputato dall’Hinduismo tradizionale: «untenable from every point of view » (Brahma Sutra II.ii.33, a c. di Swami Gambhirananda, ed. Advaita Ashrama, Calcutta 1993); e inoltre, avendo esso rifiutato l’ordine sociale tradizionale, lo si considera alla stregua di una deviazione. Ciò non impedisce che nel Buddha si sia riconosciuta la nona incarnazione (Avatara) di Vishnu. Indipendentemente dalla tradizione riguardante le dieci incarnazioni di Vishnu sulla terra, anche Gesù è per gli Hindu un Avatara : discesa del Divino svincolata dal karma.

9- L’episodio viene riportato nei volumi: Guru Baba Nanak – il profeta della luna piena di Baba Bedi (Cremona, La Nuova Via, 1972) e Guru Nanak e il Sikhismo di Stefano Piano (Fossano, Esperienze, 1971). Le variazioni da una versione all’altra sono minime.

10- Riguardo alla questione dei diritti degli animali, desidero consigliare la lettura di Etica e diritti degli animali di Luisella Battaglia (Bari, Laterza, 1997) e, di Piero Fenili, una notevole recensione allo stesso volume comparsa in «Politica romana», n. 5/1998-1999 (Quaderni dell’Associazione di Studi Tradizionali “Senatus”, Messina).

11- Kshatriya è la seconda casta (varna) in ordine d’importanza dopo quella dei Brahmana ; seguono i Vaishya e gli Shudra. Alla seconda casta appartengono i guerrieri, i principi e i re il cui compito consiste nel custodire l’ordine sociale e preservare l’integrità della Tradizione; sulla base di ciò si capisce perché Krishna incitasse Arjuna a combattere. Il cibo dev’essere commensurato alle attività che un uomo svolge e alle finalità che il suo svadharma gli impone. È dunque naturale che vi sia per ogni casta un cibo adatto; ma anche all’interno di ogni casta –in particolare delle prime tre– il cibo varia a secondo dei momenti coscienziali o stadi di vita, detti ashrama , in cui l’individuo si trova: studente, capofamiglia, anacoreta, rinunciante totale.

12- Riguardo al punto di vista esoterico, non sarà vano ricordare che chi lo abbia realizzato non lo potrà mai superficialmente e indiscriminatamente divulgare. E ciò nemmeno oggi, nonostante la tanto sbandierata democrazia. I presunti maestri che, in questa seconda metà di secolo, si sono prodigati e si prodigano per rendere i Misteri metafisici accessibili a tutti, diffondono in realtà solo confusione.

13- Personalmente non condivido pienamente uno dei motti dell’A.V.I.: «Sette milioni di vegetariani»; lo considero espressione di una sorta di violenza: volere che tutti siano come noi. Inoltre, trovo estremamente contradditorio e crudele che molti vegetariani “ufficiali” difendano a spada tratta –e ovviamente con tutte le ragoni– i diritti degli animali e non quelli dei bambini che, a migliaia ogni giorno nel mondo, vengono uccisi con l’aborto. Le forze oscure, il cui scopo principale consiste nel defraudare l’uomo della sua precipua facoltà di riflettere in termini spirituali, sono abilissime nello sfruttare i buoni sentimenti che non siano orientati e sostenuti dall’Intelletto.

14- Particolarmente calzanti, al riguardo, ci sembrano alcuni versi del poeta Juan Ramón Jiménez, tratti dalla poesia Nocturno:

«Che facciamo ogni giorno
se non uccidere? Ogni gesto
nostro non è un’uccisione? La nostra vita
non è mettere bare
nei forellini degli istanti?
Che cimitero è il tuo, vita mia! […]

Morire è solo chiudersi
come un fiore nella notte,
ritrovare il profumo della vita,
essere intero, non sparso,
essere solo uno per sempre»

(da I canti di Coral Gables, Parma, Guanda, 1974, pp. 83, 85).

Note:
Pubblicato in forma ridotta nel n. 26 di
«Ellin Selae – Raccolta illustrata di pensieri, tracce, armonie e disarmonie umane», Murazzano (CN) ora in G. Gorlani, Il Segno del Cigno. Sulle tracce dell’ineffabile, Rimini, Il Cerchio, 1999, pp. 15-22.

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