Porre fine allo specismo

maniVerso gli anni settanta assistiamo all’emergere del cosiddetto movimento di liberazione animale ed alla sua richiesta di porre fine allo “specismo”, termine coniato dallo psicologo di Oxford Richard Ryder nel 1970 ed inserito nell’Oxford English Dictonary dove è definito

“discriminazione o sfruttamento di certe specie di animali da parte degli esseri umani sulla base dell’assunto della superiorità umana”.

Come suggerisce lo stesso termine “specismo”, il movimento di liberazione animale pone un parallelismo tra gli atteggiamenti dei razzisti verso i membri di una razza che considerano inferiore e gli uomini che discriminano gli animali in base alla specie. In entrambi i casi c’è un gruppo interno che giustifica lo sfruttamento da esso operato nei confronti di un gruppo esterno sulla base di una supposta differenza, motivazione moralmente inaccettabile.

“Pur riconoscendo che l’accezione di un fondamentale principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani rappresenta un passo avanti, i teorici della liberazione animale affermano che l’idea di un’uguaglianza umana continua ad escludere dal cerchio incantato moltissime creature senzienti”.

I teorici della liberazione animale si domandano perché se siamo finalmente in grado di comprendere che l’appartenenza ad un’altra razza non è una buona ragione per considerare con minore importanza i suoi interessi, dovrebbe essere una buona ragione farlo per gli appartenenti a specie diverse. Nel decennio successivo alla sua fondazione il movimento conosce una grossa crescita nell’ambito del dibattito sul trattamento degli animali, dalla sperimentazione agli allevamenti, dall’uso delle pellicce alla caccia alle balene. La forza di tale movimento si deve in parte alle sue basi filosofiche che permettono che la critica allo “specismo” sia formulata con molto rigore, molti filosofi infatti condividono la tesi che, per sé sola, una differenza di specie non costituisce una ragione eticamente difendibile per attribuire agli interessi di un essere una considerazione superiore a quella attribuita agli interessi di un altro. Colin McGinn, eminente professore di filosofia alla Rutgers University, New Jersey, qualifica lo “specismo” come una tesi confutata.
Ma colui che si suole affermare sia l’ispiratore del movimento di liberazione degli animali è Peter Singer, filosofo australiano, attualmente direttore del Centre of Human Bioethics presso la Monash University di Melbourne.
Il suo interesse per la condizione degli animali è iniziato dopo aver conosciuto alcuni vegetariani ed è culminato nel 1976 con la pubblicazione del libro Animal Liberation. In esso viene presentata per la prima volta una critica organica dal punto di vista filosofico dell’attuale condizione di sfruttamento degli animali. In particolare vengono trattati i temi degli allevamenti intensivi e della vivisezione.
Partendo anche lui, come Henry Salt, dai principi dell’utilitarismo benthemiano li modifica, sostenendo che bisogna basarsi su una prospettiva differente che può essere detta della “media” o della “preferenza”, cioè che tenga conto della felicità media di tutti i soggetti coinvolti. Il motivo del passaggio da una teoria all’altra è abbastanza ovvio: la prima visione di utilitarismo (chiamato comunemente utilitarismo della “somma”) presenta il grosso difetto di non calcolare il benessere di ogni singolo soggetto, ma soltanto il risultato finale come somma degli effetti. Sicché un’azione che provochi una utilità alta per molti a fronte di gravi sofferenze per pochi sarà comunque preferibile e approvata purché nella somma totale la felicità di molti superi la sofferenza di pochi. Questo ad esempio nel caso della vivisezione porterebbe a giustificare gli esperimenti più aberranti su pochi animali e anche su esseri umani se questi permettessero di salvare molte vite umane.
Singer invece, con la prospettiva cosiddetta della “media”, cerca di tenere conto della situazione di tutti gli interessati, sia pure indicata in termini di utilità media: e questo è particolarmente importante, fa notare Silvana Castiglione, quando nel calcolo si vogliono inserire anche gli animali.
In questa seconda prospettiva non bisogna sommare algebricamente tutte le singole conseguenze, ma bisogna valutare le preferenze di tutti gli individui coinvolti. E fra queste preferenze bisogna tenere in maggiore considerazione quelle più essenziali come ad esempio il desiderio di sopravvivere. Singer sostiene che

“il fondamentale principio di eguaglianza, su cui poggia l’eguaglianza di tutti gli esseri umani, è il principio dell’eguale considerazione degli interessi”

e che questo principio deve essere esteso a tutti gli animali. Il che però non significa che gli animali, umani e non-umani, debbano essere trattati allo stesso modo, ma che la stessa quantità di sofferenza ha lo stesso valore e quindi deve pesare in modo eguale, qualunque sia l’essere che la sperimenta. Tutti gli animali (umani e non umani) sono uguali, perché tutti sono capaci di avere interessi: per esempio, l’interesse a evitare il dolore, a sviluppare le proprie capacità, a soddisfare i bisogni primari di cibo e di riparo, a godere di rapporti amichevoli e di amore con gli altri, ad essere liberi di realizzare i propri progetti senza interferenze non necessarie da parte di altri. Singer è fermamente convinto che solo un principio morale di questo tipo possa consentire di definire una forma di eguaglianza che abbracci tutti gli uomini con tutte le loro differenze, ma anche che questo principio debba conseguentemente essere esteso anche alle altre specie.

“In altri termini, suggerisco che, avendo accettato il principio di eguaglianza come base morale valida per i rapporti con altri della nostra stessa specie, siamo con ciò impegnati ad accettarlo anche come base morale valida per i rapporti con quelli al di fuori della nostra specie- gli animali non umani”.

In Etica pratica Singer illustra come il principio dell’eguale considerazione degli interessi, unico principio che secondo lui può essere una base solida per qualsiasi discorso di etica, implichi che il tener conto degli altri non dipende dalla loro razza o dalle loro capacità, infatti, se non fosse così potremmo sentirci autorizzati a sfruttare un membro di una razza diversa dalla nostra. E, riprendendo nuovamente Bentham, afferma che la capacità di soffrire è la caratteristica vitale che garantisce ad un essere il diritto ad un’eguale considerazione degli interessi.

“La capacità di provare dolore o gioia è un prerequisito per avere interessi in generale, una condizione che deve essere soddisfatta prima che si possa parlare di interessi in modo significativo”.

Dunque quale sia la natura dell’essere, il principio di eguaglianza richiede che la sua sofferenza conti quanto l’analoga sofferenza di ogni altro essere. Singer arriva ad affermare che se un essere non è capace di provare dolore o esperienze di gioia o felicità, non c’è nulla da prendere in considerazione. Infatti il limite della sensibilità è il solo confine difendibile per il tener conto degli interessi altrui e tracciare questo confine mediante altre caratteristiche, quali l’intelligenza o la razionalità, sarebbe arbitrario.
E proprio per confutare la tesi che soltanto gli esseri dotati di ragione e capaci di usare il linguaggio sono soggetti morali, e quindi esseri aventi diritti, fa ricorso all’argomento dei casi marginali. Non tutti gli esseri umani, infatti, hanno il pieno possesso del raziocinio e dell’abilità linguistica: basti pensare ai neonati, ai bambini molto piccoli, e soprattutto ai menomati mentali e a coloro che soffrono di gravi turbe psichiche. Eppure, noi consideriamo aberrante il negare che si possano applicare anche ad essi le categorie morali: non saranno soggetti morali attivi, nel senso che non si può pretendere da loro un comportamento moralmente consapevole, ma sicuramente sono dei soggetti morali passivi, vale a dire dei destinatari di nostri precisi doveri morali, primo fra tutti quello di rispettarli e di non farli soffrire. Il che significa che quando ci riferiamo agli umani marginali per includerli nella sfera dell’etica non prendiamo in considerazione la loro razionalità o abilità linguistica, bensì la loro capacità di soffrire, la loro qualità di esseri sensibili. E a questo punto non si vede perché lo stesso ragionamento non possa venire applicato ai non umani. Ne segue che verso gli animali noi abbiamo non soltanto dei doveri indiretti, come diceva Kant, ma dei veri e proprio doveri diretti, che vedono gli animali stessi quali destinatari in prima persona. In definitiva la posizione di Singer è incentrata sul dovere morale di non causare dolore e sofferenza a nessuno degli esseri, umani e non umani, che sono in grado di sperimentarli. Riguardo alla sperimentazione animale Singer arriva ad affermare che

“ogniqualvolta uno sperimentatore sostiene che il proprio esperimento è abbastanza importante per giustificare l’uso di un animale, dovremmo chiedergli se sarebbe disposto a usare un umano ritardato dal livello mentale simile a quello dell’animale che lui vuole usare. Se risponde di no, siamo autorizzati a ritenere che vuole usare un animale non umano solo perché dà minore valore agli interessi dei membri delle altre specie rispetto ai membri della propria, inclinazione che non può essere ammessa più di quanto non possa esserlo il razzismo o qualsiasi altra forma di discriminazione arbitraria”.

Le connessioni fra razzismo e specismo sono poi meglio evidenziate in alcune domande:

“Ma se la sperimentazione sugli umani ritardati e orfani non è giusta, perché è giusta quella sugli animali non umani? Che differenza c’è fra i due, eccetto il puro fatto che, biologicamente gli uni sono membri della nostra specie e gli altri no? Questa non è, da un punto di vista morale, una differenza rilevante, così come non lo è il fatto che un essere non è membro della nostra stessa razza. Effettivamente l’analogia fra specismo e razzismo è valida sia in pratica che in teoria nel campo della sperimentazione. Lo spiccato specismo porta a dolorosi esperimenti su altre specie, con la scusa dei loro contributi alla conoscenza e della possibile utilità alla nostra specie. Lo spiccato razzismo ha portato a dolorosi esperimenti su altre razze, con la scusa dei loro contributi alla conoscenza e della possibile utilità per la razza di chi compie esperimenti. Sotto il regime nazista in Germania, quasi 200 dottori, alcuni dei quali eminenti nel mondo della medicina, presero parte ad esperimenti su prigionieri ebrei, russi e polacchi”.

Il concetto di sofferenza non cambia in base alla specie o alla razza, al massimo cambia in base all’intensità: pertanto l’interesse ad evitare la sofferenza accomuna gli esseri umani e gli animali e deve essere valutato in maniera uguale. Sembrerebbe allora che Singer abbia una posizione totalmente abolizionista nei confronti della vivisezione, mentre in realtà il filosofo australiano lascia aperta una possibilità che per altro ha attirato le ire di tutte le associazioni antivivisezionistiche abolizioniste e gli ha causato molte critiche di incoerenza ed accuse di collusioni con case farmaceutiche.
Infatti Singer ritiene che, coerentemente con la sua posizione utilitaristica ed antispecistica, la valutazione sulla laicità morale di un esperimento debba tenere conto del numero dei soggetti coinvolti e della sofferenza che si provoca o si evita nelle specie coinvolte. Pertanto gli unici esperimenti permessi sono quelli in cui saremmo disposti a utilizzare in maniera alternativa animali o esseri umani “marginali” come afferma quando dice che

“dal momento che un pregiudizio specista, come pure razzista, non ha giustificazioni, un esperimento non può essere giustificabile a meno che non sia così importante da giustificare anche l’impiego di un ritardato umano […] Se veramente fosse possibile salvare molte vite con un esperimento che costasse una sola vita, e non ci fosse nessuna altra maniera di salvare quelle vite, potrebbe essere giusto fare quell’esperimento”.

In un testo del 1994, Ripensare la vita, Singer fa un ulteriore passo avanti e propone una ridefinizione totale dello stesso concetto di “persona”.

Egli sostiene, infatti, che noi spesso usiamo il termine persona come sinonimo di essere umano, mentre invece tecnicamente “persona” è un essere dotato di determinate caratteristiche, quali per esempio l’uso della razionalità e l’autocoscienza. Dunque una persona non è per definizione un essere umano, ma qualsiasi essere sia in grado di ragionare e abbia coscienza di sé. E la scienza oggi ha dimostrato che vi sono esseri, quali le grandi scimmie, che possono rientrare a pieno titolo in questa categoria. Tuttavia non fa alcuna differenza per noi, se un essere è una persona o meno, rispetto al modo in cui dobbiamo trattarlo, infatti l’importante è se sia o meno in grado di soffrire e solo da questo deve dipendere la nostra sollecitudine ed il nostro agire, non dal grado di razionalità ed autocoscienza che possiede. Tuttavia, sottolinea Singer

“una volta lasciato cadere l’assunto che, per avere diritto alla vita, un animale deve essere umano, dovremmo cominciare a considerare le caratteristiche e le capacità che un animale deve possedere per avere quel diritto. Nel farlo, tuttavia, non potremo non renderci conto che se poniamo il confine a qualsiasi livello al di sopra del mero possesso della vita, alcuni esseri umani non riusciranno a raggiungerlo. Allora diventerà molto difficile continuare a sostenere che questi esseri umani hanno un diritto alla vita, se nello stesso tempo si nega tale diritto ad animali con caratteristiche e capacità uguali o superiori”.

Olga Romano – da peacelink.org e italica.it

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