Riceviamo e pubblichiamo: l'intervento integrale dell'arcivescovo Caffarra
9 febbraio 2005Sono profondamente grato alle Autorità accademiche per il gradito invito di visitare questa Facoltà di veterinaria in occasione della memoria liturgica di S. Antonio monaco, venerato nella tradizione della Chiesa latina come patrono degli animali.La mia gratitudine nasce oltre che dal fatto di poter ritornare anche ora in ambiente universitario, nel quale io ho passato la maggior parte della mia vita, dal fatto che mi si offre l’occasione di riflettere brevemente, in un luogo prestigioso per la sua serietà scientifica, su una dimensione essenziale della persona e della vita umana: il rapporto cogli animali. Tema questo, come è stato osservato da lei, Signor Preside, che oggi si pone in termini assolutamente nuovi.
Lungi da me il presumere, nel breve spazio concessomi, di poterlo affrontare nella sua completezza. Il mio proposito è più semplice e nasce da una considerazione di buon senso.
La considerazione è la seguente. Quando si entra in un territorio in larga misura sconosciuto ed inesplorato, non si cammina comunque in esso: sarebbe stolto. Si deve fare il “punto della situazione”. Fuori metafora. Nella relazione uomo-animale, territorio oggi in larga misura sconosciuto ed inesplorato, esistono alcuni punti che sono teoreticamente fermi e che hanno costituito dei veri pilastri della nostra civiltà occidentale. Vorrei ora esporre brevemente questi punti, mostrando sia pure telegraficamente come da essi derivino alcune conseguenze operative. Ho già in questo modo anche esposto il proposito di questa mia breve riflessione.
Mi scuso se il mio dire assumerà un tono un po’ apodittico. Ciò è dovuto esclusivamente alla necessaria brevità della mia riflessione. L’icastica apoditticità in questo caso serve solo a dire con chiarezza quali sono le premesse fondamentali su cui è necessario discutere e, se possibile, trovare un accordo prima di introdurci nella problematica del rapporto uomo-animale.
1. Il primo punto sul quale vorrei attirare la vostra attenzione è l’affermazione della essenziale diversità dell’uomo dall’animale, che fonda una superiorità ontologica ed assiologica del primo nei confronti dell’altro. È il «principio-persona», vera colonna portante della nostra visione della realtà.
L’essenziale diversità connota il fatto che nell’uomo c’è “qualcosa” che lo fa altro dall’animale. L’uomo è un soggetto sussistente di natura spirituale, che vive della vita dell’anima. Egli non è totalmente riducibile alla natura che lo circonda. Le azioni che sono irriducibilmente umane – come la conoscenza, l’amore, la scelta libera, di cui abbiamo continuamente coscienza – mostrano che nell’uomo è presente un principio di operazione puramente spirituale. Ciò non significa negare tutto ciò che l’uomo ha in comune coll’animale; significa solo affermare che questo che ha in comune coll’animale non è tutto l’uomo, non è principalmente l’uomo. È questo che intendiamo dire quando parliamo del «principio-persona».
Questa costituzione dell’uomo gli conferisce una superiorità sul piano dell’essere [superiorità ontologica]: essere persona umana è più che essere animale; ed una superiorità di valore [superiorità assiologica]: essere persona umana è meglio che essere animale. La persona è dotata di una preziosità che l’animale non possiede.
Queste affermazioni penso che siano dimostrabili razionalmente, certo facendo un uso della propria ragione diverso dall’uso che ne fa lo scienziato. Ma esse si trovano già nelle prime pagine del libro sacro sia per la fede ebraica che per la fede cristiana. Secondo il testo ispirato l’uomo viene dalla terra come gli animali, ma c’è in lui un soffio di vita che viene da Dio [cfr. Gen 2,7]. È solo dell’uomo, non degli animali, che si dice che Dio gli insufflò lo spirito di vita: spirito che è di Dio e proviene da Dio; è di origine divina. Questa realtà infatti nei testi paralleli è attribuita solo a Dio e all’uomo, mai agli animali ed è principio di funzioni alte, sempre in relazione a Dio. L’uomo, non l’animale, è pertanto «ad immagine e somiglianza di Dio» [cfr. Gen 1,27].
L’uomo appare così come il “confine” fra due universi: l’universo neutro, impersonale delle cose e degli animali cui egli partecipa tratto dalla terra come essi, e l’universo delle persone cui egli partecipa in quanto sussistente in una natura spirituale. È stato giustamente scritto che «il materialismo non sta nella scoperta della funzione primordiale della sensibilità, ma nel primato del Neutro» [E. Levinas].
2. Il secondo punto può essere formulato nel modo seguente: la superiorità ontologica ed assiologica dell’uomo nei confronti dell’animale fonda il rapporto di dominio nei confronti dell’ animale da parte dell’uomo. O – il che equivale – il rapporto di uso.
La mentalità tecnica in cui viviamo può indurci a dare a queste due parole – dominio/uso – un significato insostenibile teoreticamente e praticamente. Provo ora a definirlo il più rigorosamente possibile.
La natura ed in essa l’animale non ha in sé nulla di sacro o di divino: il processo di totale desacralizzazione messo in atto dalla fede ebraico-cristiana ebbe ed ha una rilevanza culturale enorme.
Dominio/uso significa dunque un vero potere che l’uomo ha nei confronti dell’animale in ordine a scopi che egli si prefigge: «tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna» [cfr. S 8,7-8] recita un salmo.
Dominio/uso non significa che la natura ed in esso l’animale sia a totale disposizione dell’uomo, nel senso che l’esercizio del suo potere non abbia nessun limite se non quelli che l’uomo autonomamente pone a se stesso. Esiste una natura che diventa misura dell’agire umano. Nella prospettiva delle fede giudaico-cristiana l’animale è una creatura di Dio, e pertanto è nella obbedienza al Creatore che l’uomo esercita il suo dominio su tutto il creato. Lo “sposalizio” fra tecnica e natura è la via da percorrere per evitare sia il fossato di una riduzione dell’uomo alla natura sia di cadere nel fossato di una dominazione violenta a cui cioè non ha diritto, dell’uomo sulla natura e sull’animale.
Personalmente vedo la cultura occidentale in una seria difficoltà teoretica e pratica a transitare senza esserne divorata, fra la Scilli di una riduzione dell’intelligibilità della natura alla sua strumentalizzazione da parte dell’uomo, e la Cariddi di una riduzione dell’humanum al naturale senza nessun residuo: la Scilli dell’ubris tecnologica e la Cariddi della ridivinizzazione della natura. Il ricupero teoretico e pratico del concetto di creazione ed in esso del «principio-persona» mi sembra la via che consente alla fragile zattera della nostra ragione di non andare a sbattere.
3. Il terzo punto potrei formularlo nel modo seguente: non esiste una reciprocità vera e propria fra l’uomo e animale. La reciprocità è «l’incontro nell’esteriorità di due interiorità: fenomeno ignota agli individui puramente materiali» [V. Possenti]. Mi limito a considerare una dimensione di questa assenza della reciprocità: esistono doveri-diritti reciproci fra le persone; non esiste una correlazione del genere fra la persona e l’animale. L’animale non ha diritti. La trasposizione della categoria concettuale di diritto intesa come “facoltà tutelata dalla legge morale di esigere un dovuto” al rapporto persona-animale o nasce dalla negazione del principio-persona o porta coerentemente alla medesima negazione. Il diritto infatti sussiste sempre all’interno di una relazione fra l’uomo che possiede quella facoltà e gli altri che la devono rispettare.
Ciò non significa, come ho già detto, che il dominio/uso dell’uomo non abbia limiti obiettivi. I limiti sono fondati sulla natura ragionevole dell’uomo; ciò che l’uomo deve a se stesso è di agire ragionevolmente quando si rapporta all’animale. Comportamenti di obiettiva crudeltà verso l’animale, per esempio, non sono indegni dell’animale [solo la persona ha una dignità], ma sono indegni dell’uomo che li pone in essere. Comportamenti di equiparazione dell’animale all’uomo non sono segno di rispetto all’animale [solo la persona merita rispetto], ma sono un atto di ingiustizia verso l’uomo perché lo degradano dalla sua regale dignità.
Mi piace concludere con un testo del Compendio della Dottrina sociale della Chiesa [LEV, 2004; pag. 266, n° 487].
«L’atteggiamento che deve caratterizzare l’uomo di fronte al creato è essenzialmente quello della gratitudine e della riconoscenza: il mondo, infatti rinvia al mistero di Dio che lo ha creato e lo sostiene. Se si mette tra parentesi la relazione con Dio, si svuota la natura del suo significato profondo, depauperandola. Se invece si arriva a riscoprire la natura nella sua dimensione di creatura, si può stabilire con essa un rapporto comunicativo, cogliere il suo significato evocativo e simbolico, penetrare così nell’orizzonte del mistero, che apre all’uomo il varco vero Dio, Creatore dei cieli e della terra. Il mondo si offre allo sguardo dell’uomo come traccia di Dio, luogo nella quale si disvela la Sua potenza creatrice, provvidente e redentrice ».
[inviatoci da don Juan Andrés Caniato]