Effetti sociali, economici e ambientali del consumo di carne
30 agosto 2005Categoria : Ambiente ed ecologia
Tag : ambiente, burger, carne, ecologia, hamburger, jeremy rifkin, marinella correggia, paola segurini
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L’impronta ecologica è un concetto elaborato negli anni novanta da Mathis Wackernagel per misurare l’impatto dei nostri consumi sulla natura. Tra i fattori che contribuiscono in maggior misura all’allargamento dell’impronta ecologica individuale riveste un ruolo critico la produzione di tutti i generi di proteine animali.
L’impatto delle coltivazioni di cereali e di leguminose destinate all’alimentazione degli animali è fortissimo in termini di erosione del suolo e di altre forme di danneggiamento, mentre la continua ricerca di nuovi pascoli pesa in modo determinante sulle foreste e sugli habitat naturali.
Ad oggi, secondo l’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) il 36% di tutti i cereali prodotti al mondo viene impiegato per nutrire gli animali da carne e da latte, con differenze che vanno dal 4% in India, al 25% in Cina, al 65% negli Stati Uniti.
Inoltre, il Rapporto 2004 del World Watch Institute riporta che, valutando sia l’acqua utilizzata per irrigare le coltivazioni destinate al mangime che quella impiegata per la pulizia delle stalle, si giunge a una stima in base alla quale a ogni chilo di carne di manzo corrispondono 108 metri cubi d’acqua. Gli allevamenti sono strutture ecologicamente costose anche per la produzione di gas serra, dato che i ruminanti generano metano pari a un sesto delle emissioni globali.
IL CONSUMO DI CARNE È IN COSTANTE CRESCITA
I maggiori consumatori di carne siamo noi del Nord del mondo. Il World Resources Institute calcola che gli americani ne ingurgitano 122 chili a testa ogni anno, gli italiani 88 chili.
La Confederazione italiana agricoltori ha recentemente sottolineato una crescita del consumo di carne bovina del 6,8% negli ultimi due anni (4% nel solo anno scorso), con acquisti domestici di 400 mila tonnellate nel 2004, per un importo superiore ai 3,5 miliardi di euro.
Siamo al quinto posto in Europa per l’uso di carne bovina, dopo irlandesi, maltesi, danesi e francesi. Questi ultimi sono i principali esportatori di bovino nel nostro paese. Ma, secondo il Centro d’Informazione Carni francese, in tutto il continente non si riesce a soddisfare la richiesta di carne bovina, che arriverà presto dall’America Latina. Ed è proprio in quella zona del pianeta, ma non solo, che si sta assistendo al boom dell’allevamento e della monocultura di piante destinate al nutrimento di animali da tavola.
IL CASO HAMBURGER CONNECTION IN AMAZZONIA
Un caso esemplare è ciò che sta accadendo in Amazzonia. Il Centro Internazionale di Ricerca Forestale (CIFOR) ha recentemente denunciato un danno ambientale enorme e ha individuato negli allevamenti di bovini uno dei principali fattori responsabili della perdita di zone della foresta amazzonica brasiliana. Anche nell’ultimo anno sono infatti spariti intorno ai ventiquattromila chilometri quadrati di alberi, per una superficie pari alla Sardegna.
Il team di scienziati del CIFOR ha applicato al fenomeno amazzonico la definizione di Hamburger Connection, coniata nei primi anni ottanta dall’ambientalista statunitense Norman Myers per indicare nell’incremento rapidissimo delle esportazioni di carne dal Centro America verso le catene di fast food degli Stati Uniti una delle forze motrici dell’incremento della deforestazione di quella regione. Si stima che il Brasile sia oggi il primo esportatore mondiale di carne bovina, con un fatturato triplicato dal 1995 e un milione e 400 mila tonnellate esportate.
LA NUOVA FRONTIERA DEL MANGIME DI SOIA
Ma, stando agli ultimi rapporti finanziari, il vero e proprio oro verde delle Amazzoni è la soia. La coltura della leguminosa sta avanzando dalle zone di savana del centro-sud del Mato Grosso, dove si era attestata negli anni ottanta, verso una serie di territori amazzonici, nel nord di quello stesso stato ma anche in Pará, Roraima, Rondonia e nell’estremo sud dello stato di Amazonas e viene spinta dall’enorme sviluppo del suo mercato mondiale, dai prezzi eccellenti, dall’esistenza di significativi investitori stranieri e da alcuni grandi produttori locali.
Blairo Maggi, il governatore del Mato Grosso, è chiamato il “re della soia” in quanto è il maggiore proprietario mondiale privato di terreni di produzione di questo vegetale.
Nel 2004 il suo Maggi Group ha fatturato 600 milioni di dollari e prodotto 2 milioni di tonnellate di soia. Non si tratta di quella pianta il cui nome evoca eco-sostenibiltà e alimentazione sana, ma della monocultura della soia nella varietà utilizzata per i mangimi che, sull’onda della paura della BSE (Mucca Pazza), viene sempre più richiesta dalle nazioni ricche come sostituto delle farine animali. Maggi è stato anche fondamentale nella creazione di infrastrutture per lo spostamento dei raccolti.
La realizzazione di una rete di terminal fluviali per il transito e il carico di imbarcazioni, che da sole spostano l’equivalente di mille camion di soia, ha accorciato e reso più economico il trasporto, aumentando ancora l’attrattiva rappresentata da questa “nuova frontiera”.
Il governatore ha avviato la creazione di vie che tagliano il cuore dell’Amazzonia, favorendo l’apertura dell’autostrada BR-163 in costruzione tra Cuiabà, la capitale del Mato Grosso, al porto di Santarém.
In uno studio effettuato per il WWF, l’analista ambientale olandese Jan Maarten Dros sostiene che oggi la soia è il maggior responsabile diretto e indiretto della deforestazione. Diretto perché si sta convertendo la savana dalla sua naturale vegetazione in campi di soia, indiretto perché in questa regione molti allevamenti vengono rimpiazzati da coltivazioni della leguminosa da parte di agricoltori che affittano o acquistano la terra.
Ciò significa che gli allevatori tendono ad avanzare, continua Droos, in nuove sezioni della foresta, causando ulteriore disboscamento. Non bisogna dimenticare che il 75%. della soia oggi viene destinata all’alimentazione animale.
UNA POSSIBILE SOLUZIONE AL PROBLEMA
“Il consumo umano diretto sarebbe molto meno oneroso”, ci spiega Marinella Correggia, impegnata da tempo nella sensibilizzazione su temi socio-ambientali e autrice del libro Diventare come balsami “ma siamo di fronte ad una feed/food competition: feed sono gli alimenti vegetali usati per nutrire gli animali, quindi utilizzati come mangime, food sono gli stessi usati direttamente per gli umani, la competizione si ha quando si sottrae, come accade adesso, all’essere umano per dare agli animali allevati”.
Feed/food competition è quindi anche l’uso di terre per coltivare foraggi non commestibili per l’uomo in una superficie in cui si potrebbe coltivare cibo per umani, o anche l’occupazione delle terre, per esempio, per i pascoli. Una soluzione, secondo Correggia, sarebbe “coltivare meno soia, coltivarla biologica e impiegarla per l’uso alimentare umano, così ci sarebbe più posto per tutti.”
L’ASPETTATIVA DI UN FUTURO CONSAPEVOLE
Che cosa si deve prevedere per il futuro? Entro il 2020 (e rispetto al 1997) il mondo in via di sviluppo aumenterà prevedibilmente del 50% la domanda di cereali complessiva, del 39% la domanda di cereali per l’alimentazione umana, dell’85% quella per l’allevamento, e del 92% la domanda di carne. Ciò corrisponderà a un incremento di circa l’86% della domanda globale di cereali e carne (Norman Myers e Jennifer Kent).
L’economista e sociologo Jeremy Rifkin rimarca che 800 milioni di persone soffrono la fame perché gran parte del terreno coltivabile del pianeta viene dedicato a farvi nascere foraggio e cibo per gli animali da carne.
La speranza è che le economie emergenti sappiano valutare e programmare modelli di crescita economica profondamente diversi da quelli occidentali. E che gli abitanti del Nord del mondo si rendano conto di come le loro scelte alimentari presentino conseguenze per la struttura sociale mondiale, per la salvaguardia dell’ambiente e per la loro salute individuale.
La schiera delle persone che decidono di modificare la propria alimentazione a vantaggio della propria salute, ma anche come opzione consapevole nei confronti del pianeta e di chi vive in situazioni geografiche più svantaggiate aumenta sempre più e crescono le pubblicazioni, i luoghi e le opportunità in cui approfondire i vari aspetti di una scelta alimentare responsabile.
Paola Segurini – da Il Consapevole