Intervista (impossibile) ad Aldo Capitini
1 ottobre 2005Un’intervista (impossibile) ad Aldo Capitini (fondatore del movimento nonviolento e di Società Vegetariana, ndr) che parla di sé, delle sue idee e del suo intenso impegno per realizzarle. Le domande poste fanno da filo conduttore alla lettura della sua autobiografia intitolata “Attraverso due terzi del secolo”, pubblicata il 16 agosto 1968, due mesi prima della morte avvenuta il 19 ottobre, trentasette anni fa. Professore, ci parli della sua vita.
“Sono nato a Perugia il 23 dicembre 1899, in una casa nell’interno povera, ma in una posizione stupenda perché sotto la torre campanaria del palazzo comunale, con la vista, sopra i tetti, della campagna e dell’orizzonte umbro, specialmente del monte di Assisi, di una bellezza ineffabile.
I primi venti anni della mia vita si sono svolti secondo un modello tipico. Precoce come sensibilità, riflessività e interesse per la lettura e per la poesia, non avevo nessuna guida, sicché mi fu una grande scossa l’incontro con la letteratura futurista, i suoi manifesti, i suoi programmi innovatori che mi presero per un po’ di tempo, dal 1913 al 1916, associandosi al nazionalismo di adolescente (leggevo fin da piccolo i giornali), e in contrasto col fondo del mio carattere, che invece preferiva letterati e poeti meditativi e moralisti, come Boine, Slataper, Jahier, e specialmente Ibsen.
Fu il periodo dei molti amici, delle esperienze varie e anche troppo varie e sciocche, della mescolanza di poesia e di grossa polemica, finché mi avviavo alla “conversione” che avvenne negli anni 1918-1919: dalla vita di “esperienze” all’austerità, dal nazionalismo all’umanitarismo pacifista e socialista, dalle letture contemporanee allo studio delle lingue e letteratura latina e greca, che cominciai con la massima tensione nel 1919 da zero, visto che, per povertà, ero stato indirizzato agli studi dell’istituto tecnico. Autodidatta accuratissimo, acquisii in quegli anni l’esperienza della finitezza umana, del dolore fisico, dell’inattività sfinita in mezzo alle persone attive, un’esperienza che alla componente della costruzione culturale univa quella della ricerca etico – religiosa. Avevo imparato perché il “classico”, il “morale”, le beatitudini evangeliche, la democrazia e il socialismo erano dei valori, ci ero arrivato dopo l’eversione, il disordine, il dannunzianesimo, il marinettismo, le “parole in libertà”.
Avevo un senso così serio, umano e autentico delle “strutture”, che il fascismo non mi prese minimamente, e se non partecipai attivamente alle iniziative politiche opposte fu soltanto perché ero tutto preso alla mia costruzione culturale e dai malanni. Oggi mi pare quasi impossibile che né la “Rivoluzione liberale”, né i socialisti né Gramsci mi abbiano preso, o forse si potrebbe dire che io dovevo “fare” solo quando avrei potuto dare “aggiunte” singolari e diverse”.
In ogni epoca ci sono state grandi guerre e grandi pacifisti. Il suo originale pensiero a chi si ispira e a chi è rivolto?
“Presa da Gandhi l’idea del metodo nonviolento impostato sulla non collaborazione, potevo avere una guida per dire “no” al fascismo (quando Giovanni Gentile mi chiese la tessera fascista per conservarmi nel posto della Normale), e soprattutto un modo per realizzare concretamente quel certo francescanesimo a cui tendevo da fanciullo, col vantaggio che mentre San Francesco era prima dell’Illuminismo, Gandhi veniva dopo il Settecento, con la serissima applicazione dei principi della libertà, fratellanza, eguaglianza, e del valore fondamentale della ragione critica e della coscienza anche in religione. Dal 1933 al 1943 ho fatto propaganda girando in molte città e con frequentissimi incontri a Perugia, specialmente tra i giovani, per costituire gruppi di antifascismo; forse in quel periodo ho avvicinato più giovani di ogni altro in Italia: questo era noto, tanto che un amico mi disse enfaticamente “le donne partoriscono per te”; e lo ricordo per insegnare il valore dell’attività nonviolenta che cerca e stabilisce le solidarietà, e può contare sull’esempio e sulla parola. Nel quadro della spiritualità italiana e della formazione culturale ed etico – politica il mio lavoro si presentò, fin dall’inizio, come molto critico dello storicismo: fui tra i primi a fronteggiarlo, a mostrarne le insufficienze etiche. La mia provenienza era diversa, con un’apertura alle singole individualità e alla loro finitezza, con una severa considerazione dei mezzi rispetto ai fini, con la tendenza a vedere il rapporto intersoggettivo e la comunità di tutti anche oltre la realtà della vita e della morte. Se si dovesse accennare a vicinanze culturali, ne nominerò tre: la filosofia etica di Kant; una ripresa (più spontanea che derivata) dei temi “morali” di alcune figure del primo ventennio: Michelstaedter, Boine, Clemente Rebora; un’apertura alla molteplicità del tu – tutti, della teogonia dell’atto gentiliano”.
E’ consapevole che le sue idee hanno in qualche modo illuminato il mondo?
“La mia fiducia era che l’umanesimo del laicismo e del marxismo avrebbe avuto bisogno, un giorno, di un’ulteriore trincea, quella neo-religiosa, e mentre quell’umanesimo suscitava, anche nell’antifascismo, tante forze, io mi promettevo un discorso ulteriore. Quando vedo lo sviluppo che hanno preso oggi tre temi a me cari e congiunti in unità: il rifiuto di ogni guerra, la democrazia diretta con il controllo dal basso, la proprietà resa pubblica e aperta a tutti; e vedo le crescenti discussioni circa i temi cattolici, penso che avessi ragione ad aspettare da un periodo post-fascista la piena utilizzazione nel mio contributo. Fino al 1944 io non avevo formato, per la mia riforma, nulla di veramente istituzionale, ed ero isolato. L’impeto politico derivante dalla Resistenza armata, diverso dalla mia posizione di religioso nonviolento fino al sorgere di equivoci non agevolmente comprensibili, il fatto che io non fossi di nessun partito (forse fui il primo ad usare in Italia l’espressione “indipendente di sinistra”), portarono al mio progressivo isolamento, alla nessuna utilizzazione da me fatta del posto avuto in dieci anni di attivissima opposizione antifascista, al disinteresse generale, o ignoranza, per il mio nome e i miei libri”.
Come nacque e si sviluppò l’idea di un Centro di Orientamento Sociale?
“Subito dopo la liberazione di Perugia, nel luglio 1944 costituii il C.O.S. per periodiche discussioni aperte a tutti, su tutti i problemi amministrativi e sociali. Fu un’iniziativa felice, che convocava molta gente e le autorità (tra cui il prefetto e il sindaco), molto desiderata da tutti per l’interesse ai temi e per la possibilità di “ascoltare e parlare”; e si diffuse nei rioni della città, in piccole città dell’Umbria, e in città come Firenze e Ferrara. Nessuna istituzione la diffuse e la moltiplicò, e il mio sogno che sorgesse un C.O.S. per ogni parrocchia era molto in contrasto con il disinteresse e l’avversione che, dopo pochi anni, sorse in molti contro un’istituzione così indipendente, aperta, critica; né si poteva dire che l’organizzazione ne fosse difficile; ci sarebbe tuttavia voluta una virtù: la costanza. Quella fu la prima iniziativa che presi per valermi della libertà e per preparare la “riforma” come la vedevo. Tanto è vero che, dopo le difficoltà che portarono nel 1948 alla fine dei C.O.S., anche dopo una breve loro ripresa nel 1957, ho svolto lo stesso tema mediante un foglio mensile “Il potere è di tutti”, che propugna la democrazia diretta (o omnicrazia, come la chiamo), il controllo dal basso in ogni località e in ogni ente, i consigli di quartiere e i centri sociali, i comitati e le assemblee, la libertà di informazione e di critica, permanente e per tutti. Il tema si riconduce, come dirò poi, a quella riforma che io propugno in nome dello sviluppo della realtà di tutti.” Un’altra iniziativa fu quella del Movimento di Religione… “Nell’ottobre del 1946, d’intesa con l’ex-prete Ferdinando Tartaglia, convocammo a Perugia un Primo convegno sul problema religioso attuale. Era una cosa nuova, insolita, inattesa per quanti non avessero percepito che nell’opposizione antifascista, nella tensione di aggiornare l’Italia al mondo, c’era anche, più o meno esplicito, il tema di portare il laicismo al punto di produrre la sostituzione di una nuova vita religiosa a quella tradizionale, derivante dalla Controriforma. Io indicai il lavoro religioso come consistente nella ripresa, nell’etica contemporanea, dei temi della mitezza, del perdono, della nonviolenza, e nell’apertura massima alla realtà di tutti, alla compresenza di tutti gli esseri; Tartaglia lo indicò nella tensione a porre un “puro dopo” nella realtà e nelle società attuali, in una tramutazione di tutta la nostra vita, nella creazione di “atti nuovi”. Al convegno di Perugia seguirono altri fino al 1948; avemmo modo di farli gravitare su problemi come la libertà religiosa in Italia, la situazione degli ex-preti, l’obiezione di coscienza e la pace internazionale”.
Il suo rapporto con la Chiesa, non fu facile…
“Nel 1955 l’uscita del mio libro “Religione aperta”, messo all’Indice da Pio XII, segnò il punto di arrivo della Riforma religiosa da me impostata, riassumendone i temi e affidandola ormai alle posizioni del tutto personali di ciascuno. Le ragioni della critica storica neotestamentaria, l’utilizzazione di apertura anche nelle religioni istituzionali, il nesso della religione da un lato con la nonviolenza, dall’altro con la riforma della società, l’esigenza costante della libertà anche nella vita religiosa, sono stati temi trattati nelle nostre conversazioni che creavano qualche cosa di comune tra noi di diverse posizioni: libero religioso io, altri evangelici, cattolici, bahai, ebrei, laici, marxisti. Dopo i movimenti nati all’indomani della Liberazione, sono arrivato negli ultimi anni ad un proposito di tenace approfondimento per me, per capire ed essere sempre più un ricercatore – costruttore e un fedele libero religioso, ma lasciando ogni incontro collaborativo al tempo e agli altri. Se la mia vita religiosa è risolutrice e utile, altri la rifaranno, e meglio di me. Io non chiedo che di condurla bene, con autenticità. Una prova di questo aver diffuso temi e stimoli senza averne raccolto precise e fedeli risposte, sta non solo nel vedere come si svolge la problematica religiosa oggi, ma specialmente nel fatto che per la “religione” non posso citare quei contatti e quelle influenze che posso indicare per altri tre campi: la nonviolenza, la scuola, le idee sociali”.
Come è riuscito a dare corpo al suo pensiero non violento?
“Nel campo della nonviolenza, dal 1944 ad oggi, posso dire di aver fatto più di ogni altro in Italia. Ho approfondito in più libri gli aspetti teorici, ho organizzato convegni e conversazioni quasi ininterrottamente, ho lavorato per l’obiezione di coscienza, ho promosso, attraverso il Centro di Perugia per la nonviolenza, convegni Oriente-Occidente, la Società vegetariana italiana, la Marcia della pace da Perugia ad Assisi, e poi il Movimento nonviolento per la pace e il periodico “Azione nonviolenta”. Della Consulta italiana per la pace, una federazione di organizzazioni italiane per la pace sorta dopo la Marcia di Assisi, sono stato presidente. Sono, insomma, riuscito a far dare ampia cittadinanza, nel largo interesse per la pace, alla tematica nonviolenta. Come teoria e come proposte di lavoro, la nonviolenza in Italia ha una certa maturità. E qui, come dicevo, ho avuto più occasioni d’incontro che con la pura e semplice religione. In fondo, quando sono andato due volte a Barbiana, a parlare con Don Lorenzo Milani e la sua scuola, la discussione e l’esposizione non è stata altro che sulla nonviolenza, per la quale egli mi disse di convenire con me. Ho lavorato con continuità per la libertà religiosa in Italia, stabilendo collaborazioni con laici, dal mio punto di vista di libero religioso per cui la libertà è indispensabile per tutti; ed anche alla difesa della scuola pubblica dalla pressione e dall’invasione confessionale, un campo nel quale promossi un’associazione che ha avuto anni di buona efficienza, l’A.D.E.S.S.P.I. (Associazione per la difesa e lo sviluppo della scuola pubblica italiana). Ho dedicato un lungo lavoro ai problemi educativi, pedagogici, scolastici con l’iniziativa di una Consulta di professori universitari di pedagogia, a cui ho dedicato l’attività dell’insegnamento. Rifiutando ogni carica offertami nel campo politico, ho piegato la politica, e l’interesse in me fortissimo per essa, alla fondazione di un lavoro per la democrazia diretta, per il potere di tutti o, come la chiamo, omnicrazia. Nell’ultimo ventennio ho pure approfondito la conoscenza di Kant ed Hegel, Croce e Gramsci”.
Quali scenari immagina per il futuro dell’umanità?
“Sono convinto che l’Europa, unita al Terzo Mondo e al meglio dell’America, elaboreranno la più grande riforma che mai sia stata comune all’umanità, quella riforma che renderà possibile abolire interamente le disuguaglianze attuali di classi e di popoli, e abolire le differenze tra i “fortunati” e gli “sfortunati”. Non con piani di assistenza e di elargizione sarà possibile costituire una nuova società nel mondo, in cui tutto sia di tutti, con la massima naturalezza, superando il vecchio individualismo borghese che ho visto così fiorente all’inizio del Novecento. Ci vorrà una profonda concezione religiosa che abbia arricchito l’uomo, e fors’anche una grande semplificazione nella vita, che non impedirà ai più alti valori di avere il primato, perché diventi conseguente un modo di trattare tutti, nel modo più aperto, con crescenti uguaglianze, con la gioia di portare gli ultimi tra i primi. Questa comunità nella società sarà la premessa di una vittoria sulla stessa natura, diventata al servizio di tutti. Ho insistito per decenni ad imparare e a dire che la molteplicità di tutti gli esseri si poteva pensare come avente una parte interna unitaria di tutti, come un nuovo tempo e un nuovo spazio, una somma di possibilità per tutti i singoli, anche i colpiti e annullati nella molteplicità naturale, visibile, sociologica. Questa unità o parte interna di tutti, la loro possibilità infinita, la loro novità pura, il loro “puro dopo”, la finitezza e tante angustie, l’ho chiamata compresenza”.
Il 19 ottobre 1968 Aldo Capitini moriva circondato da amici e allievi, dopo aver subito un intervento chirurgico che consumò le sue ultime energie. Il 21 ottobre il leader socialista Pietro Nenni scriveva una nota sul suo diario: “E’ morto il prof. Aldo Capitini. Era una eccezionale figura di studioso. Fautore della nonviolenza, era disponibile per ogni causa di libertà e di giustizia. (…) Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C’è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all’epoca del fascismo e di nuovo nell’epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello”.
[da Orvietonews.it – Davide Pompei]