Pushkar, la città vegetariana
11 febbraio 2009In India, per motivi religiosi, per usanze e tradizioni, le limitazioni e le proibizioni sono tante. Eppure si trova tutto, sempre, dovunque. A cercarlo si trova il maiale, anche nelle parti del Paese abitate in prevalenza da musulmani, e senza neanche dover troppo impazzire si trova anche la mucca. Coloro che stanno in cima al sistema delle caste sono vegetariani, coloro che – al contrario – stanno più in basso o sono «fuori casta», mangiano regolarmente di tutto. E può anche succedere di vedere un gruppo di uomini che – con fare furtivo – si avvicinano a una delle incalcolabili vacche che vagano per le città, le autostrade, i villaggi, per «accompagnarla» in un posto isolato, per poi macellarla e mangiarla. Per gli 800 milioni di induisti è come uccidere dio. Ma succede. Ma esiste un posto, in India, dove sottrarsi alla semplicissima regola della cucina vegetariana, è impossibile.
La prima cosa che colpisce di Pushkar, nel cuore del Rajahstan a otto ore di macchina da Delhi, è che all’ingresso della città c’è un vero e proprio check point, con tanto di sbarra. Niente di particolarmente tecnologizzato, sia chiaro. Un gruppo di uomini stanno dentro una baracca, altri passano la giornata stravaccati vicino al passaggio delle auto. All’ingresso si paga un dazio simbolico di cinque rupie (13 centesimi di euro). Con l’impegno di non portare dentro niente che sia impuro. Niente alcol, niente droghe, niente uova e – soprattutto – niente carne macellata. Da questa porta si entra e da questa si esce. Non ci sono scorciatoie, né vie alternative per entrare in una delle città sante dell’induismo. Pushkar è una città incantata, dalle case coloratissime nel quartiere del mercato, e bianchissime quando affacciano sul lago, il fulcro di tutto. Gli abitanti raccontano che il lago sia nato da una lacrima di Brama, una delle più venerate divinità induiste. E qui sorge l’unico tempio indù al lui dedicato di tutto il mondo. Per gli induisti che venerano Brama, Pushkar è una sorta di Mecca. Un pellegrinaggio da fare, almeno una volta nella vita.
Ventimila abitanti e la bellezza di mille templi. Molti di questi privati. Il più antico ha ottocento anni. A dispetto di tutto quanto accade nelle altre città indiane, a Pushkar regna la pace, e il silenzio. Poche centinaia di metri dopo aver pagato il biglietto per entrare nella città santa, è necessario lasciare la macchina. Per il resto, è una città quasi pedonalizzata. Circolano solo gli scooter e le moto, i risciò a pedali e qualche touk touk, gli Ape a tre ruote riadattati per il trasporto delle persone. Il mezzo di locomozione preferito da tutti – abitanti e turisti – è la bicicletta. A Pushkar si sente il silenzio, e questo regala alla città quel mistero mistico e magico che – ancora oggi – continua ad attrarre gente «in cerca di India» da tutto il mondo. Pushkar si presenta come l’India viene rappresentata. Polverosa eppure romantica, con le fogne a cielo aperto e allo stesso tempo delicata e affascinante. La città, il cui nome deriva dell’unione delle parole «fiore» (push) e «mano» (kar), è invasa dei contadini dei villaggi circostanti che vengono a vendere le verdure dei loro orti. Frutta e verdure vengono vendute a ogni angolo di strada, messe in bella mostra direttamente sulla strada sporca e polverosa. Per le strade e nelle vie del mercato, le scritte in ebraico invitano i tantissimi turisti e viaggiatori israeliani. Ogni ristorante promette un menù italiano, con tanto di «spagheti bolognesi», e uno israeliano. Per le strade, tra i negozi e templi, le guest house e gli «yoga center», a essere maggioranza sono gli animali. Cammelli, scimmie, macachi, mucche, vitelli, cani, capre, tutti per strada, a giro dalla mattina fino al momento magico della sera, quando la spazzatura di una giornata viene raccolta ed offerta loro come dono.
E poi ci sono i Gat. Le scale che portano al lago. Luogo di preghiera e di purificazione, territorio di commerci per i falsi bramini desiderosi di recitare per te una preghiera in cambio di qualche rupia, teatri a cielo aperto al tramonto quando le puja, le preghiere e i canti purificanti delle sera, trasformano il lago in uno spettacolo di musica e statue di luce che danzano. E poi luogo di grande raccogliemento all’alba, durante i bagni di purificazione che avvengono a qualunque temperatura, con ogni condizione meterologica, a dispetto di un inquinamento fortissimo che fa del lago di Pushkar, un lago senza ossigeno. I Gat che vengono rigorosamente regolamentati. Soprattutto è proibito percorrere le scale che portano al lago con le scarpe. E farlo scalzi, tra le feci di scimmie e mucche, è un’impresa.
Ma le iscrizioni stampate sui muri ogni pochi metri ricordano che è proibito l’uso di droghe, di alcol e di cibo che non sia rigorosamente vegetariano. Questi comportamenti, a Pushkar, la città santa, la città di Brama, sono un dogma. Tra l’altro la città si trova a pochissimi chilometri di Ajmer che, neanche a dirlo, è la roccaforte dell’islam indiano. Per i 150 milioni di musulmani indiani, Ajmer è l’altra Mecca, città santa da visitare almeno una volta nella vita, soprattutto per la presenza del Dargah, il santuario musulmano costruito intorno al mausoleo di Khwaja Moinuddin Chisti, un derviscio che fondò in India l’ordine dei Sufi nel 1166. Le due città – Pushkar e Ajmer – simboli dell’induismo e dell’islam indiano, convivono fianco a fianco in pace. Ma un bramino – desideroso di decantare le lodi della convivenza tra islam e induismo – non ha esitato a dirci che «se troviamo qualcuno che mangia carne, dopo aver ammazzato una mucca, lo ammazzeremmo senza pensarci su due volte».
La mucca è dio. La carne, a pranzo o a cena, è proibita a Pushkar, da sempre. Nei tanti ristoranti e negli alberghi, è possibile trovare i piatti tradizionali della cucina indiana. Pakora, il riso con ogni verdura possibile, il pane – naan – con il burro, le patate, o vari tipi di erbe. E poi i piatti cinesi, lo hummus tipico della cucina israeliana, addirittura la pizza, persino migliore di tante pizze che è possibile mangiare in Europa. Ma la carne no, mai. Né in albergo, né al ristorante, né nelle case private. Pushkar è una città interamente e integralmente vegetariana. La carne è proibita e la proibizione è reale.
Gran parte della vita sociale, soprattutto per gli stranieri, si svolge ai piani più alti. Sui tetti delle case i ragazzi e bambini giocano dalla mattina alla sera con gli aquiloni. Gli adulti invece si ritrovano per parlare, aggiustare una sedia rotta, mangiare. I ristoranti sono quasi tutti all’ultimo piano di un edificio, magari con vista lago, comunque lontano dal movimento e dal controllo sociale delle strade. E qui, si scopre di poter trovare tutto. In uno offrono birra, in un altro invece c’è il vino, anche di produzione indiana, oppure francese. E poi, in tutti quei luoghi di ritrovo giovanili, dove la clientela è ancora una volta in larga parte israeliana e italiana, è il cameriere stesso a proporre hashish da fumare, insieme alle altre pietanze del menù. Alla fine, anche a Pushkar si trova tutto. Si beve, si fuma droga. Tutto o quasi. La carne da mangiare, di qualunque animale, resta il tabù. Niente capra, niente montone, niente pollo tandoori. «Quella roba, qui, non la troverai mai», ti dice il cameriere che ti ha appena portato una birra e che sta provando a contrattare con te la vendita di 10 grammi di hashish. «Qui a Pushkar nessuno mangia carne. Non si vende, non si compra, non si cuicina, non si mangia». Benvenuti a Pushkar, Rajasthan occidentale, la città vegetariana.
[da corriere.it dell’11 febbraio 2009 – raffaele palumbo]