Tolstoj era un figlio dei fiori
17 agosto 2010Il 7 novembre prossimo saranno cent’anni esatti dal giorno della morte del conte Lev Tolstoj, universalmente noto come uno fra i più grandi scrittori che il mondo abbia conosciuto. L’anniversario non dovrebbe venir celebrato solo dagli appassionati di letteratura russa ma da tutti coloro che ancora credono in quella che, semplificando brutalmente, chiameremmo controcultura.Tolstoj infatti non si accontentò di essere ricordato per l’indubbio talento e la porzione di genio donatagli per comporre romanzi e racconti, ambiva al ruolo ancor più carismatico di illuminato maestro di vita. Dopo aver composto i suoi capolavori, Guerra e Pace e Anna Karenina, e aver superato una “crisi spirituale”, si fece banditore dagli anni ottanta dell’800 di una filosofia in netta contrapposizione con i poteri costituiti. La base era una sorta di “cristianesimo anarchico” che rifiutava l’istituzione della Chiesa (nel suo caso si trattava di quella Ortodossa, ma lo stesso discorso valeva per la lontana Roma e per le organizzazioni luterane e derivati vari). Ovviamente nel nome della fedeltà al Vangelo, e con il soccorso di qualche infarinatura buddista ed indù ed un po’ di nichilismo alla Schopenauer.
Il risultato non fu particolarmente originale, dato che ricalcò, più o meno consapevolmente, le orme di alcune sette gnostiche pullulate nei primi anni del Cristianesimo. L’eresia della religione fai-da-te bandita dal Conte (sbeffeggiata magistralmente da Solov’ev nei suoi “Dialoghi dell’Anticristo”) aveva conseguenze sulla vita pratica. La principale era quella del pacifismo ad oltranza, dell’offrire sempre e comunque l’altra guancia: Ghandi ne fu molto influenzato, come tutto il movimento internazionale di renitenza alla leva e obbiezione di coscienza che si sviluppò in Occidente dopo il Secondo conflitto mondiale. In fondo, anche le poche resistenti bandiere arcobaleno che ancora ingrigiscono per lo smog su qualche balcone italiano sono figliastre di Tolstoj. Eresia religiosa e pacifismo erano accompagnati dall’opzione vegetariana e animalista (il Conte avrebbe senz’altro gioito alla notizia della recente abolizione della Corrida, da poco votata in Catalogna). Chissà dunque se lettori di Vito Mancuso e Augias, militanti della Sinistra Arcobaleno ed allergici alla cotoletta faranno almeno un minuto di silenzio per la memoria di Lev Tolstoj?
In ogni caso l’editoria italiana si sta preparando all’evento e ha sfornato per ora tre volumi, concentrati tutti sull’ultimo atto della vicenda terrena dello scrittore-santone. Ai primi di novembre del 1910, Tolstoj ottantaduenne scappò da casa, la nota tenuta rurale di Jasnaja Polyana, in compagnia della figlia maggiore Alexandra. Fuggiva forse dalle pressioni degli assillanti seguaci, sicuramente dalla moglie Sof’ja. Colto da malore, fu costretto a scendere dal treno nella stazione di uno sperduto ed insignificante paesino russo, Astapovo, dove morì dopo una settimana. Ci riportano a quei giorni i tipi di Skira che ripubblicano un classico Einaudi, La fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari e Bompiani che stampa L’ultima stazione di Jay Parini, dal quale Michael Hoffman ha tratto l’anno scorso il film “The last station” (con Christopher Plummer nell’impegnativo ruolo del Conte). Adelphi traduce invece Tolstoj è morto di Vladimir Pozner, a nostro parere il più interesante fra i tre libri. Pozner divenne noto nel panorama letterario europeo, appena trentenne nel 1935, proprio grazie a quest’opera d’esordio. Era nato a Parigi da genitori esuli perché non in buoni rapporti con lo Zar ma tornò in Russia giusto in tempo per assistere alla Rivoluzione.
Nei primi caotici anni che seguirono la presa del potere bolscevica assunse un ruolo di primo piano nelle vicende dell’avanguardia artistica accanto a Mandel’štam, Achmatova ed Ivanov. Di nuovo a Parigi dagli anni Venti fino alla morte nel 1992, frequentò Michaux, Prévert, Chagall, subì un attentato dinamitardo dell’OAS in risposta ad un suo pamphlet contro la guerra d’Algeria, collaborò con Hollywood scrivendo sceneggiature e guadagnandosi una candidatura all’Oscar.
Per Pozner la morte di Tolstoj rappresentò anche quella del romanzo ottocentesco e decise di raccontare la settimana di passione di Astapovo con uno stile basato sul montaggio di frammenti dai diari del Conte e della consorte, dispacci della polizia preoccupata che l’agonia dell’ingombrante personaggio favorisse l’assembramento di facinorosi, telegrammi di giornalisti. È il telegrafo infatti il grande protagonista del romanzo di Pozner: aggiorna giorno per giorno, minuto per minuto anzi, la Russia ed il mondo sulla malattia del grande vecchio. La morte di quella che risulta essere stata la prima figura culturale di fama planetaria diventa il primo grande evento globale, vissuto quasi in diretta dalle principali capitali d’Occidente. I cronisti insonni cercano disperatamente indiscrezioni dai famigliari sulla banchina della stazione e quando non hanno notizie e le redazioni premono, le inventano. I religiosi tentano ancor più disperatamente di parlargli per farne un figliol prodigo, cancellare la scomunica, benedirlo prima della dipartita.
La figura più commovente è però la moglie dello scrittore; Sof’ja, che verrà ammessa al capezzale solo dopo la morte di Tolstoj. Da anni lui non la sopportava per il suo rimaner refrattaria alle scelte religiose ed etiche da lui abbracciate. Ed è proprio dai brani di diario di questa povera donna che sembra trasparire la vera immagine del Russo. Troppo preso dalle sue riflessioni sull’Amore Universale, trascurava le minime esigenze richieste ad un capofamiglia e nonostante le prediche sul matrimonio casto, costringeva la signora a continui rapporti; dei tredici figli che ne derivarono, se ne occupò materialmente lei sola, non senza sacrifici. In sintesi, un grandissimo scrittore, un confuso filosofo ed un pessimo marito.
[da loccidentale.it – 1 agosto 2010 – luca negri]