L’uomo è cacciatore, sì, davvero!
30 settembre 2014Categoria : Nutrizione, Saperne di più
Tag : armando d'elia, australopitechi, australopitecini, Australopithecus, Australopithecus africanus, comel, james collier, lucy
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Le attuali conoscenze sull’origine dell’uomo ci permettono di tracciare, nelle sue tappe essenziali, la storia evolutiva della famiglia di primati di cui facciamo parte, quella degli ominidi, a iniziare dalle fasi molto antiche in cui comparvero gli australopitechi, di poco posteriori al punto di separazione dalla linea che ha condotto ai nostri parenti più prossimi, le scimmie antropomorfe africane.
Il nome significa Scimmia del sud (dal latino australis = meridionale e dal greco πίθηκος = scimmia).
Gli australopitechi apparvero probabilmente all’incirca 4,2 milioni di anni fa con l’Australopithecus anamensis ed ebbero un certo successo evolutivo divenendo assai diffusi in Africa, fino ad estinguersi completamente circa 2 milioni di anni fa.
Avevano numerosi tratti comuni alle scimmie antropomorfe e all’uomo, con andatura fondamentalmente bipede (come intuibile dalle numerose impronte fossili scoperte nel continente africano, fra le quali particolarmente famose e ben conservate sono quelle di Laetoli, in Tanzania), ma pronti ad arrampicarsi sui radi alberi della savana per sfuggire ai predatori o per trovare un rifugio sicuro dove passare la notte.
Gli studiosi sono propensi a credere che dal genere Australopithecus (ed in particolare dalla specie africanus) si siano staccati i progenitori del genere Homo (ed in particolare Homo erectus), attorno ai due milioni di anni fa. Recentemente sono stati rinvenuti resti fossili di primati ascrivibili proprio al genere Homo e tuttavia antecedenti all’apparizione di Australopithecus africanus. Questo vorrebbe dire che il distacco dagli australopitecini degli antenati dell’uomo moderno potrebbe essere avvenuto prima di quanto si pensasse, ad esempio a partire da Australopithecus afarensis, o da specie ancora più primitive, addirittura estranee al genere (come Kenyanthropus platyops). Ma che sempre da lì veniamo.
Nonostante la loro corporatura esile, gli australopitechi probabilmente possedevano una grande potenza masticatoria, in grado di rompere per scopi alimentari semi e noci dal guscio spesso e resistente. Questa capacità dei nostri progenitori africani sarebbe stata svelata da una recente simulazione computerizzata che ha preso in considerazione la specie Australopithecus africanus, vissuta in un periodo compreso tra 3,3 e 2,5 milioni di anni fa.
I paleoantropologi hanno realizzato un modello virtuale del cranio di questa specie, sulla base di uno fossile in ottima conservazione, ed hanno simulato il funzionamento delle mandibole, con particolare riferimento alle forze che queste sono in grado di produrre. Successivamente hanno confrontato l’azione dei muscoli mandibolari dell’ Australopithecus africanus con quella di una specie ancora esistente e priva delle caratteristiche facciali degli australopitechi, ma di cui sono state a lungo studiate la biomeccanica del cranio, l’architettura e l’attività dei muscoli facciali: il macaco cinomologo (Macaca fascicularis). Le analisi sono state condotte considerando l’azione masticatoria sia dei molari che dei premolari, sia di entrambi questi gruppi di denti contemporaneamente.
In tutte le analisi, lo scheletro facciale di Australopithecus africanus risulta maggiormente sotto sforzo rispetto a quella del macaco, suggerendo come la morfologia facciale dell’ominide risulti più infuenzata dalle forze in atto durante la masticazione e, allo stesso tempo, come questa specie fosse in grado di frantumare con i denti alimenti piuttosto coriacei. Di particolare rilevanza nel processo di frantumazione di gusci spessi sembrano coinvolti non i molari, bensì i premolari, denti con cui poteva venire esercitata una buona forza e nella cui posizione potevano essere posizionati cibi di dimensioni ragguardevoli. Per questo motivo i ricercatori affermano che questa specie si nutrisse di semi e noci con un guscio molto spesso, che, date le dimensioni, non potevano essere poizionate nello spazio compreso tra i molari. In precedenza si era ritenuto che questa specie di austrlopiteco gracile non facesse uso di cibi duri, in quanto sui molari non è mai stata rilevata la presenza di scalfiture, tipiche invece dei denti di alcune specie robuste (Genere Paranthropus) spesso associate al consumo di questo tipo di alimenti.
Questo risultato rafforza l’idea che la morfologia facciale di alcune specie di ominidi arcaici fosse un adattamento ad una dieta specializzata, molto ricca di noci e semi duri, ipotesi già formulata sulla base di alcune caratteristiche dei denti e dello spessore dello smalto, ma che non aveva fino ad ora trovato ulteriori evidenze empiriche a suffragio.
La capacità di rompere e consumare alimenti duri ma presenti con abbondanza nell’ambiente con la forza dei muscoli mandibolari e dei denti, concludono i ricercatori, potrebbe aver rappresentato una strategia vincente per questi ominidi arcaici, soprattutto nei peridodi di cambiamenti climatici e scarsità di cibo e in assenza di utensili in pietra che potevano agevolare questo compito.
I paleoantropologi sono concordi nell’affermare che, durante la preistoria del’uomo si verificarono eventi meteorologici e geologici che alterarono profondamente gli ecosistemi da lui abitati. In particolare vennero alterati i biomi vegetali dai quali l’uomo traeva il proprio nutrimento.
Avvennero, infatti glaciazioni (espansioni dei ghiacciai), interglaciazioni (ritiri dei ghiacciai e avvento di climi piu caldi), periodi di forte inaridimento climatico, aumenti eccezionali della piovosità (pluviali). Particolarmente importante per l’uomo fu l’ultima glaciazione denominata Würm, dell’era quaternaria, nel periodo chiamato Pleistocene. Tale immane glaciazione comportò l’avanzata dei ghiacciai su gran parte delle regioni euroasiatiche, con conseguente distruzione delle foreste e con effetti che si protrassero sino a 10.000 anni fa circa.
Coeve di tali glaciazioni furono le intensissime precipitazioni (pluviali) che si verificarono in Africa; anche questi eventi climatici furono gravidi di conseguenze per l’uomo, poichè ai pluviali seguì una fase di calo drastico delle piogge e di inaridimento del clima (anche per effetto della formazione della Great Rift Valley, lungo la quale l’Africa si è come spaccata per effetto di un grandioso evento tettonico, tuttora in corso) per cui leforeste subirono per effetto di un grandioso evento tettonico, tuttora in corso) per cui leforeste subirono funeste riduzioni trasformandosi prevalentemente in savana. L’uomo fu conseguentemente costretto a diventare animale da savana e dovette, per sopravvivere, cibarsi di quello che tale ambiente gli offriva. Vi trovò le graminacee, piante che richiedono spazi aperti, luce solare diretta, condizioni, queste, presenti nella savana e non nell’ombrosa foresta, donde l’uomo proveniva. Ecco cosa ci dice l’illustre clinico e scienziato Marcello Comel dell’Università di Pisa: «L’uomo per derivazione ancestrale è una “scimmia d’ombra” essendo vissuto per milioni di anni sugli alberi, all’ombra delle foglie, nella sua grande patria d’origine, la foresta. Sceso a terra, vagò per altri milioni di anni nella savana». (M. Comel – Il quaderno Santoriano della salute – Milano, 1979).
Le graminacee, lo sappiamo tutti, sono piante che producono dei frutti secchi (cariossidi), monospermatici, duri, piccoli, senza odore e senza appetibile sapore, quasi invisibili, senza apprezzabili variazioni cromatiche all’atto della maturazione: cibo da uccelli, insomma. La paleobotanica ci dice che le prime graminacee spontanee utilizzate dall’uomo furono il frumento (Triticum boeoticum) e l’orzo (Hordeum spontaneum); da queste specie selvatiche derivarono poi le specie coltivate (addomesticate) che poi via via portarono alle spighe dei cereali attuali, ben più ricche di frutti, attraverso incroci e pratiche culturali varie.
L’agricoltura, la proprietà terriera e la stanzialità dell’uomo nacquero, cosi, circa 10.000 anni fa, in 3 zone (Asia occidentale, Asia sud-orientale e America centrale). La parte più vicina a noi, di queste tre zone, è la prima, nel vicino medio Oriente, detta Mezzaluna fertile per la sua forma approssimativa, che si estende dalla Palestina all’Iran attraverso la Turchia: da tale zona l’agricoltura si diffuse poi nel bacino del Mediterraneo e nelle altre terre europee.
Ma l’uomo, a causa dell’insufficiente apporto nutritivo delle graminacee spontanee, fu costretto a rivolgere la sua attenzione anche al nutrimento carneo, che poteva procurarsi mangiando gli animali della savana: divenne, quindi, oltre che granivoro, anche carnivoro, nonostante che la sua costituzione fisica fosse – lo è tuttora – quella di un fruttariano, come dimostrano senza alcun dubbio, come sappiamo, la anatomia comparata, la fisiologia comparata, l’embriologia, lo studio degli istinti, l’immunologia.
Ecco quel che ci dice, di questo periodo preistorico così decisivo per l’uomo, una voce autorevole (James Collier – L’uomo preistorico – Newton, 1974): «Il Pleistocene fu un periodo stravagante: per quattro volte durante il suo trascorrere i ghiacci avanzarono sino a coprire le regioni del mondo temperato per poi ritirarsi. I ghiacciai del Pleistocene non raggiunsero l’Africa, ma in questo continente l’epoca fu contrassegnata da periodi di grandi precipitazioni piovose alternati a periodi di assoluta siccità. In queste condizioni l’uomo non potette più affidarsi completamente alla vegetazione per nutrirsi e dovette completare con la carne la sua dieta. Ma tutti i carnivori sono forniti di qualche attrezzo simile agli utensili del macellaio: basta pensare al becco dell’avvoltoio, alle zanne della tigre, agli artigli del leone o del gatto selvatico. L’uomo invece, come tutti i primati, non è per natura carnivoro. L’antenato dell’uomo non era tanto un cacciatore quanto uno spazzino che si nutriva delle prede fatte da altri animali, carnivori. Forse adoperando sassi e bastoni l’uomo riusciva ad allontanare il leopardo dall’antilope uccisa, se ne impossessava e la trascinava al sicuro nel suo rifugio».
L’uomo in conclusione, fu costretto ad operare questa svolta radicale nella sua alimentazione, per poter sopravvivere. Non operò quindi, una scelta, ma semplicemente dovette obbedire ad uno stato di necessità che non offriva alternative. L’istinto di sopravvivenza prese il sopravvento e gli istinti alimentari biologicamente connaturati con la specie umana e orientati alla frutta furono soffocati, non potendo più, l’uomo, soddisfarli.
(fonti: Armando d’Elia, Focus, Wikipedia, Proceedings of the National Academy of Sciences)
Stefano Momentè