I perché della scelta vegana
6 luglio 2007Si sente tanto parlare di “scelta vegana”, senza però sapere di preciso di cosa si tratta.
Alice ha conosciuto da vicino gli aspetti più importanti della scelta vegana.[b]Aspetto etico:[/b] a pagare il costo degli allevamenti intensivi sono innanzi tutto gli animali allevati, ai quali sono imposte situazioni di estrema sofferenza. Negli attuali allevamenti industrializzati, miliardi di animali destinati al macello sono costretti a vivere incatenati o chiusi in gabbie sovraffollate, incompatibili con le loro esigenze fisiologiche, privati della minima libertà di movimento, impediti nella pratica di istinti affettivi e sessuali, mutilati, sottoposti a costanti terapie antibiotiche ed ormonali (sia per prevenire l’esplosione di epidemie che per velocizzare la loro crescita), ad un’illuminazione ininterrotta che impedisce loro di dormire, nutriti con alimenti inadeguati, chimici e innaturali (fino ai casi delle mucche costrette al cannibalismo), costretti a respirare un’aria satura di anidride carbonica, idrogeno solforato, vapori ammoniacali, polveri varie e povera d’ossigeno.
[b]Aspetto salutistico:[/b] il complesso degli studi nutrizionali dimostra che per prevenire e curare le più comuni e gravi patologie degenerative tipiche dei paesi industrializzati occorre cambiare dieta, limitando di molto, o escludendo del tutto, i prodotti di origine animale. Secondo un rapporto del Surgeon General degli Stati Uniti, più di 1,5 dei 2,1 milioni di decessi riscontrati nel 1987 possono essere messi in relazione a fattori alimentari, soprattutto al consumo di grassi saturi e colesterolo. Non a caso, l’associazione dei nutrizionisti americani (ADA) promuove un’alimentazione che esclude i prodotti animali, oggi largamente consumati, per uomini, donne, donne incinte, donne che allattano, bambini e sportivi. Negli ultimi anni il mito delle proteine animali è stato abbandonato anche dai nutrizionisti che in passato lo sostenevano.
[b]Aspetto ecologista:[/b] per consumo di risorse, latte e carne sono indiscutibilmente i “cibi” più dispendiosi, inefficienti e inquinanti che si possano concepire: oltre alla perdita di milioni di ettari di terra coltivabile (che potrebbero essere usati per coltivare vegetali per il consumo diretto degli umani), e oltre all’uso indiscriminato della chimica, vi è la questione dell’enorme consumo d’acqua in un mondo irrimediabilmente assetato, il consumo di energia, il problema dello smaltimento delle deiezioni animali e dei prodotti di scarto, le ripercussioni sul clima, l’erosione del suolo, e la desertificazione di vaste zone. Ormai la metà delle terre fertili del pianeta viene usata per coltivare cereali, semi oleosi, foraggi, proteaginose, destinati agli animali. Per far fronte a questa immensa domanda – in continuo aumento, in quanto le popolazioni che tradizionalmente consumavano poca carne oggi iniziano a consumarne sempre di più – si distruggono ogni anno migliaia di ettari di foresta pluviale, il polmone verde del pianeta, per far spazio a nuovi pascoli o a nuovi terreni da coltivare per gli animali, che in breve tempo si desertificano, e si fa un uso smodato di prodotti chimici per cercare di ricavare raccolti sempre più abbondanti.
[b]Aspetto sociale-umanitario:[/b] un terzo dell’umanita’ soffre di malnutrizione, e il problema di fondo e’ lo squilibrio nella distribuzione delle risorse. Le produzioni attuali di cereali e legumi sarebbero sufficienti a sfamare tutti, occorrerebbe solo consumare direttamente i vegetali, anziché usarli per nutrire gli animali, con un grave spreco, e ridistribuire le risorse in modo equo. Il Brasile coltiva a soia 60 milioni di ettari, il 23% della terra coltivabile del paese, soia che esporta in Europa per il 50%, e vende all’estero carne bovina e animali vivi, nonostante 30 milioni di persone siano malnutrite. Le coltivazioni di soia prendono il posto di quelle di mais e fagioli neri destinati all’alimentazione locale, facendo così aumentare i prezzi e facendone diminuire la disponibilità. In Colombia, 40 milioni di ettari sono lasciati a pascolo dai latifondisti per allevare animali, mentre solo 5 milioni sono coltivate da piccoli agricoltori.
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