Noi, romani col turbante
9 agosto 2007Se non fosse per il luogo dove riceve le persone, una palestra di yoga nel quartiere Aurelio di Roma e non le fantastiche ambientazioni lussureggianti del Borneo, Bhai Hari Singh Khalsa, per gli amici Hari Singh, potrebbe essere scambiato per Sandokan, il Robin Hood del mare della Malesia, che i non più giovanissimi ricordano come amato protagonista di uno sceneggiato di successo di oltre trent’anni fa.Romano di nascita e di accento, ma convertito al sikhismo in giovane età, il Kabir Bedi della capitale in realtà fa le cose sul serio e svolge il non facile ruolo di rappresentante delle comunità indiane sikh in Italia (circa 20.000) davanti alle autorità pubbliche, compito che gli era stato affidato dal suo maestro spirituale in India diversi anni fa perché preoccupato delle sorti di quei suoi connazionali che dal Punjab, regione nordoccidentale dell’India dalla quale provengono i sikh, cominciavano a cercare fortuna in Italia.
«Attualmente in Italia le persone provenienti dal Punjab sono circa 120.000», esordisce Hari Singh, «molte delle quali impegnate nell’allevamento dei bovini, lavoro duro che non conosce festività di alcun tipo e che gli italiani non vogliono più fare, al punto che un imprenditore del Nord mi ha detto che senza i miei correligionari non esisterebbe più il Parmigiano reggiano».
A Hari Singh rivolgiamo alcune domande sugli usi e le abitudini della popolazione sikh in Italia, per cercare di capire un po’ meglio chi sono questi nostri discreti ospiti.
[b]Qual è il suo ruolo rispetto ai suoi correligionari?[/b]
«Qui a Roma faccio parte della Consulta delle religioni che fa capo al Comune, con il quale abbiamo firmato un protocollo di intesa sei anni fa per aiutare le minoranze religiose, compresa la nostra, a vivere la propria identità in maniera dignitosa».
[b]Può fare un esempio?[/b]
«Una cosa importante per chi viene da lontano è la possibilità di praticare il proprio culto e non è facile trovare locali adatti a questo scopo».
[b]Quali sono i fondamenti della vostra religione?[/b]
«Non esiste proselitismo, non c’è un’istituzione religiosa ufficiale che rappresenti tutti i sikh o che in qualche modo detti le norme per la pratica del culto, neppure in India. Un’autorità esiste però in ogni Gurdwara, cioè in ogni tempio dove si prega, che si costituisce dove ci sono almeno cinque sikh: è il libro sacro, il Guru Granth Sahib, che viene conservato con estremo rispetto. Nel libro sacro riconosciamo lo spirito del nostro fondatore, Guru Nanak Dev, che visse a cavallo fra il 1400 e il 1500. Ogni nucleo, ogni Gurdwara, ha una sua propria organizzazione ed è autonomo nel suo funzionamento».
[b]Che funzione ha il Gurdwara?[/b]
«Ha principalmente una funzione di tipo religioso, è guidato da una persona che ha l’autorità di leggere il libro durante le funzioni, che si svolgono normalmente la domenica mattina. Inoltre c’è un comitato, una sorta di organizzazione interna, che svolge e coordina attività di tipo sociale a favore di tutta la comunità, a partire dalla semplice ma importantissima socializzazione della nostra gente che, proprio a causa del lavoro che svolge, risulta di fondamentale importanza».
[b]In quale senso?[/b]
«La stragrande maggioranza dei sikh in Italia lavora nelle stalle o nella coltivazione dei campi e la solitudine si fa spesso sentire. Avere la possibilità di comunicare con gli altri, parlare la propria lingua, confrontarsi, riconoscersi e intrecciare amicizie diventa fondamentale per vivere dignitosamente. Al tempio si può anche imparare l’italiano, un lusso che a chi svolge mansioni di tipo agricolo è praticamente interdetto e che invece la frequenza al tempio permette».
[b]Quali abitudini alimentari hanno i vostri connazionali?[/b]
«Siamo vegetariani, non mangiamo né pesce né carne né uova».
[b]E le donne quale funzione hanno nella vostra società?[/b]
«Siamo monogami, c’è un’assoluta parità tra uomo e donna. Le nostre donne, se lo desiderano o se lo richiedono le esigenze familiari, lavorano, spesso nei negozi di abbigliamento ma anche nelle campagne».
[b]Ci sono dei sikh che vivono e lavorano nelle zone urbane?[/b]
«È più facile trovare lavoro in campagna: i nostri, per quello che riguarda Roma e le zone limitrofe, sono diffusi praticamente in tutto l’Agro Pontino e devo dire che vengono cercati apposta per lavori di tipo agricolo, per i quali sono molto apprezzati perché sono affidabili e instancabili. Consideri poi che non creano problemi di ordine pubblico: per la nostra religione non possiamo bere, fumare, fare uso di stupefacenti. Ma esistono diverse persone che lavorano nel campo del commercio, che hanno pasticcerie, panifici e altre attività».
[b]I sikh sono sempre riconoscibili dal turbante che portano in testa?[/b]
«Di regola un sikh battezzato con il rito apposito, l’amrit, deve sempre portare i capelli coperti. C’è però una nuova generazione che copre i capelli in modo meno appariscente, per esempio con un cappellino. Questa tendenza si è sviluppata dopo il 2001, con gli attentati alle Torri Gemelle, quando abbiamo cominciato a essere scambiati per talebani, con relativi problemi di incolumità. Negli Usa addirittura alcuni dei nostri sono stati ammazzati. Poi ci sono i problemi pratici, per esempio quando si deve raggiungere il posto di lavoro nella campagna con la moto e in questo caso non è facile mettersi il turbante e il casco insieme. Ma problemi ci sono anche con il pugnale, che dobbiamo sempre avere con noi: non per offendere ovviamente, ma come segno sacro. Per questo da tempo chiediamo alle autorità italiane di comprendere queste esigenze e di aiutarci a rispettare la legge. Gli altri tre segni che portiamo sul corpo, invece, cioè il pettine, il divieto di tagliarsi i peli del corpo e il braccialetto di metallo, non danno particolari problemi».
[b]Che rapporti avete con la società cristiana nella quale siete inseriti?[/b]
«Direi che sono ottimi. A Fiumicino ci aiuta ancor oggi la Comunità di Sant’Egidio, a Lavinio con il parroco locale c’è molto rispetto e anche condivisione umana, tanto che ognuno partecipa alle feste dell’altro. È accaduto di recente che un figlio di una famiglia sikh è diventato cattolico facendosi battezzare, con orgoglio da parte dei genitori. Anche noi crediamo infatti in un unico Dio e ci atteniamo a una prassi di vita onesta, di condivisione dei beni e gioiamo quando questo avviene per le altre persone, pure se attraverso altre espressioni religiose. Ma rapporti cordiali esistono anche in India, dove abbiamo adottato 400 bambini cattolici in collaborazione con il vescovo di Kochi, nel Kerala. Diciamo poi che dal 2001 siamo stati quasi costretti a farci conoscere di più dalla popolazione civile italiana, anche attraverso manifestazioni pubbliche, proprio per favorire l’integrazione, che non può prescindere da una maggiore conoscenza reciproca con gli italiani».
[da famiglia cristiana – stefano stimamiglio]