Vivo da vegetariano e mi devo scusare
7 aprile 2010di Carlo Rossella
Da almeno 20 anni sono vegetariano. Dapprima in modo trasgressivo. Caddi in tentazione e peccai in Argentina davanti a un maestoso «lomo de bife» del ristorante Clark’s in calle Sarmiento a Buenos Aires. Non seppi trattenermi di fronte a un piatto di culatello dell’Ambasciata di Romano Tamagni a Quistello. Ebbi un vero turbamento dinanzi al carrello dei bolliti del ristorante Bardelli a Pavia, sulle rive del Ticino.Poi, col tempo, le mie trasgressioni sono sparite. Il mio cibo si è ridotto alla pasta, ai vegetali e al pesce. Ma essendo allergico all’aglio, alla cipolla e a tutti i loro derivati e affini, ho ridotto molto lo spettro dei vegetali a me permessi. Non potendo assumere grassi animali come burro e strutto ho aggiunto altre difficoltà alla mia già tormentata vita da vegetariano non perfetto (perché mangio pesce) ma comunque abbastanza coerente.
Finché pranzo in casa non ho problemi, dato che pure mia moglie è vegetariana. Il dramma inizia al ristorante. So di essere l’incubo dei maître. Consulto il menu con aria sospettosa. Interrogo sui piatti il malcapitato che me lo porge. In genere cado sull’insalata e le verdure bollite. Adoro i carciofi alla romana, per esempio, ma solo in rari ristoranti non mettono quello che mi definiscono «un profumo d’aglio», ignorando che anche un lieve sentore mi dà la nausea.
Esaurita la sezione verdure passo ai primi. Lunghe le discussioni sulla pasta, quasi sempre con sugo, «insaporito», dicono, con la cipolla. La trattativa per ottenere una semplice pomodoro, basilico, e olio d’oliva crudo è, a volte, faticosa. Il mio niet deciso ai secondi di carne, se pronunciato da Coco Lezzone a Firenze, mi garantisce l’odio perenne della direzione e dei suoi dipendenti.
Un altro dramma capita alle cene ufficiali o a quelle private, quando devi mangiare quello che passa il convento. Mi succede spesso, nei dinner con tante persone, di rifiutare l’antipasto, di non assaggiare il primo, di tenermi alla larga dal secondo, restando a pane e acqua sino all’arrivo di qualche sporadica foglia d’insalata. Dopo le cene da amici o conoscenti devo mandare lettere di scuse con fiori alla padrona di casa, per non avere assaggiato né i cannelloni al ragù né i medaglioni di vitello col fegato d’oca.
Dagli sguardi dei commensali non vegetariani ho capito in questi anni che gli amici delle zucchine e dei peperoni non sono molto amati dai carnivori. Ma c’è chi mi adora comunque: il mio labrador Oliver. Si è talmente abituato a vedermi mangiare vegetali che ha cambiato la sua dieta carnivora mescolando il riso non solo con la carne di tacchino, ma anche con carote, zucchine, fagiolini. Forse un giorno diventerà lui pure vegetariano.
L’Italia, per fortuna mia e di quelli come me, è un paese che ha una cucina con molte ricette di verdure. Ma in altri paesi la scelta è minima: insalata o patate. È il caso del mondo est europeo, per esempio.
Nelle città moderne il vegetariano, schizzinoso e un po’ nevrotico come me, avverte il minaccioso odore di carne abbrustolita. Succede a Madrid, a Buenos Aires, a Rio, a Chicago, a New York, a Tokyo, a Londra, a Parigi, a Praga. È in queste occasioni che sogno i profumi dell’origano di Capri, dei pomodori del Salento e del basilico di Liguria. Mi aiutano a soffrire di meno.
[da panorama del 7 aprile 2010 – carlo rossella]