La sofferenza degli animali
13 luglio 2010Nel 1997 lo scrittore John Coetzee fu invitato dall’ Università di Princeton a tenere le prestigiose Tanner Lectures. Poteva parlare di ciò che voleva, purché l’ argomento riguardasse «la comprensione del comportamento e dei valori umani». Sorprendendo tutti, decise di leggere due ractivo di ammazzarli».La vita degli animali è un libro potente, che però persevera nel peccato originale di tutta la letteratura: narra storie inventate su esseri immaginari che popolano un mondo di fantasia. Dunque, non può produrre alcun effetto significativo e duraturo sulla vita di persone reali che vivono nel mondo reale. Non per nulla il bioetico Peter Singer, che nel libro fa il controcanto a Coetzee, dichiara esplicitamente: «Dite pure che sono antiquato, ma preferisco tenere verità e finzione ben separate». La sua dichiarazione è particolarmente rilevante, perché Singer è l’ autore del libro-manifesto Liberazione animale, uscito per la prima volta nel 1975, e appena ripubblicato in una nuova edizione aggiornata dal Saggiatore. Un documento-verità, appunto, che lungi dal limitarsi agli effetti soporiferi delle storie-finzioni, ha risvegliato nel mondo intero una concreta sensibilità nei confronti delle sofferenze e dei diritti degli animali.
Da filosofo, Singer inizia analizzando le due tradizioni occidentali nei confronti degli animali. Quella maggioritaria, di sfruttamento e dominio in nome della supposta superiorità umana, che a partire dalla Genesi passa attraverso Aristotele e Tommaso d’ Aquino, per arrivare fino a Cartesio e Kant. E quella minoritaria, di rispetto ed empatia in nome della comune appartenenza all’ albero della vita, che risale a Pitagora e continua con Hume e Voltaire, per arrivare a Bentham e Darwin. I capitoli fondamentali del libro sono però quelli che buttano in faccia alle anime semplici, che credono che amare gli animali significhi coccolare cani e gatti, o inorridire per le corrideei massacri delle foche, i dati e i fatti relativi all’ uso delle bestie nella sperimentazione e nell’ alimentazione.
In particolare, Singer racconta in dettaglio le vite, le sofferenze e le morti da lager che ogni anno sono costretti a subire i miliardi di animali (dieci nei soli Stati Uniti, una volta e mezza la popolazione mondiale!) la cui carne e i cui prodotti finiscono sulla nostra tavola e nelle nostre pance: polli, vitelli, maiali, conigli, tacchini, uccelli e pesci da un lato, e galline da uova e mucche da latte dall’ altro. Tutti esseri che, SCIENZA E LETTERATURA A fianco, il biologo Peter Singer e, sotto, lo scrittore John Coetzee. A destra, una pittura su vetro del XV secolo anche se non parlano e non pregano, comunque sentono e soffrono, e lo dimostrano in maniera straziante a chiunque si prenda la briga di andare a visitare i luoghi indecenti in cui vengono stipati e allevati industrialmente.
Singer dedica quasi tutta la sua attenzione al problema etico sollevato dall’ uso degli animali, soprattutto come alimentazione, e tocca solo di sfuggita due aspetti che sono altrettanto importanti. E forse anche più convincenti, per lo meno in un mondo che è insensibile all’ etica e alla moralità persino nei riguardi degli uomini: figuriamoci degli animali. Il primo aspetto è economico: affinché noi possiamo mangiare gli animali, questi devono mangiare i vegetali. La maggioranza delle coltivazioni mondiali viene dunque dedicata alla produzione dei mangimi, con un duplice dispendio. Di efficienza, perché l’ energia del Sole immagazzinata dalle piante viene utilizzata solo indirettamente, attraverso la carne che l’ ha già utilizzata, invece che direttamente, attraverso i vegetali. E di costo, perché gli animali che mangiano i vegetali sono ovviamente più cari dei vegetali stessi. Detto con uno slogan: «La carne vale meno dei vegetali, ma costa di più». Il secondo aspetto è biologico: il nostro intestino è lungo, come quello degli erbivori, e non corto, come quello dei carnivori. Il che significa, anzitutto, che non è la natura a imporci di mangiar carne, bensì la cultura (se vogliamo chiamarla così).
Ma significa anche, e soprattutto, che il nostro intestino non è adatto alla digestione della carne, che infatti vi sosta molto più a lungo, e vi si decompone molto più a fondo, dei vegetali. Il risultato è un’ alta incidenza del cancro al colon nelle società che mangiano molta carne, come le occidentali, e una bassa o nulla incidenza in quelle che ne mangiano poca o niente, come le africane e le orientali.
Per legge si dovrebbero dunque avvisare i consumatori, così come già si avvisano i fumatori, apponendo sui prodotti di macelleria l’ avviso: «La carne uccide». Senza il supporto delle testimonianze raccolte nell’ esplosivo libro di Singer, i potenti racconti di Coetzee rimarrebbero vuota invenzione letteraria. Alla luce di quelle, acquistano invece un valore di requisitoria processuale. Lasciamo dunquea lui l’ ultima parola: quella che disse il 22 febbraio 2007, quando fu invitato al congresso Sento, dunque sono organizzato da Voiceless (“Senza voce”), un istituto australiano per la protezione degli animali. Questa volta lo scrittore fece il contrario che alle Tanner Lectures di dieci anni prima: non ci andò, ma mandò un proprio testo, che fu letto in apertura da un suo doppio reale. E la sua conclusione, sulla quale ci farà bene meditare, fu: «Quando abbiamo scoperto che i nazisti ebbero la brillante idea di adattare i metodi dell’ allevamento industriale, inventati e perfezionati a Chicago, al macello (che essi preferirono chiamare lavorazione) degli esseri umani, abbiamo naturalmente gridato d’ orrore: Che crimine terribile, trattare esseri umani come bestie! Ma avremmo fatto meglio a gridare: Che crimine terribile, trattare esseri umani come ingranaggi di un processo industriale! E quel grido avrebbe dovuto avere un poscritto: Che crimine terribile, a ben pensarci, trattare esseri viventi come ingranaggi di un processo industriale! ». –
da repubblica.it del 25 giugno 2010 – piergiorgio odifreddi]