I dispiaceri della carne
23 luglio 2010Nel piatto c’è un filetto al sangue. O una costata di maiale. O un pollo al forno che aspetta di essere divorato. La forchetta è già a mezz’aria quando si affaccia un dubbio: ma in che percentuale, la carne macellata in Italia, viene controllata dai veterinari pubblici? Insomma: quanto possiamo essere certi che, nel cibo che stiamo mangiando, non siano contenute sostanze tossiche o comunque pericolose?
La prima risposta arriva da Francesca Martini, sottosegretario alla Salute: “Il consumatore italiano può stare tranquillo”, garantisce, “la sicurezza della filiera alimentare è assoluta, anche per la carne. Tutti gli standard europei vengono rispettati. I nostri veterinari sono un esempio di professionismo.
Dunque non c’è da preoccuparsi”. O meglio: non ci sarebbe, se non si intrecciassero i dati dell’anagrafe nazionale bovina, dell’Istat e dell’Unione nazionale avicoltura con le statistiche del Piano nazionale residui, il programma ministeriale “di sorveglianza sulla presenza, negli animali e negli alimenti di origine animale, di residui di sostanze chimiche che potrebbero danneggiare la salute pubblica”.
Da questo intreccio di analisi escono numeri poco entusiasmanti, scenari poco popolari. Nel 2009, ad esempio, la percentuale dei controlli sui bovini macellati (in tutto 2 milioni 949 mila 828) ha riguardato 15 mila 803 capi, ed è stata pari allo 0,5 per cento. Dei 13 milioni 616 mila 438 suini macellati, invece, i veterinari ne hanno controllati 7 mila 563, cioè uno striminzito 0,05 per cento. E ancora meno sono stati controllati gli 11 milioni 740 mila quintali di volatili macellati (tra polli, tacchini, oche e quant’altro), con un totale di 4 mila 316 verifiche e il record negativo dello 0,03 per cento (inferiore agli standard imposti dalle direttive Ue).
“Il settore delle carni è una polveriera, ne paghiamo ogni giorno le conseguenze, ma nessuno ha interesse a sollevare la questione”, dice Enrico Moriconi, presidente dell’Associazione veterinari per i diritti animali (Avda). Un problema di prima grandezza, considerando che lo scorso anno gli italiani hanno consumato in media 92 chili di carne a testa, e che per il presidente di Assocarni Luigi Cremonini “i consumi sono destinati a crescere”. Eppure l’opinione pubblica è serena: “La gran parte della popolazione continua a non chiedersi cosa può nascondere una bistecca”, sostiene Moriconi: “Al massimo si agita quando scoppiano episodi di straordinaria gravità: come l’influenza aviaria nel 1999 e 2002, la cosiddetta mucca pazza nel 2001, o le carni suine irlandesi contaminate dalla diossina nel 2008”.
Emergenze che la sanità italiana ha affrontato senza sbandamenti, va riconosciuto, adeguandosi velocemente ai protocolli internazionali. Ma la comune origine di questi allarmi è rimasta identica: “Una zootecnia suicida basata sugli allevamenti intensivi”, la chiama Roberto Bennati, vicepresidente della Lega antivivisezione (Lav). “Una strategia industriale che, partita dagli Stati Uniti nel dopoguerra, è arrivata in Europa travolgendo regole e tradizioni”.
Anno dopo anno, ettaro dopo ettaro, al posto dei pascoli si sono imposti capannoni “dove gli animali vivono in condizioni di sovraffollamento, immersi nell’inquinamento dei loro stessi escrementi (pregni di ammoniaca per i bovini, e metano per il pollame), con limitate possibilità di movimento e reiterati bombardamenti farmacologici”. Non importa che anche la Food and agricolture organization, a nome delle Nazioni Unite, definisca queste strutture “un vivaio di malattie emergenti”. Malgrado la crisi, l’industria italiana delle carni nel 2009 ha fatturato 20,5 miliardi di euro. Ed è una cifra che colpisce, oltre che per dimensioni, per il confronto con la quantità di bestiame che muore all’interno delle nostre aziende zootecniche. “Nel 2008”, documenta la Lav, “sono morti in Piemonte 20 mila 700 bovini allevati. In Veneto sono arrivati a quota 24 mila 433. In Emilia Romagna ne hanno contati 18 mila 217 e in Lombardia 67 mila 996. È accettabile questo cimitero? E chi può dire, in buona fede, che non bisogna allarmarsi?”.
[l’espresso – 22 luglio 2010 – riccardo bocca]