Il lato oscuro del mondo in stile fast-food

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In un mondo dai ritmi sempre più veloci, in cui il tempo è divenuto un bene di lusso e la casa un dormitorio per lavoratori-automi, il fast food sembra proprio una manna piovuta dal cielo: ristoranti colorati e puliti, dove per pochi spiccioli è possibile avere il conforto di un pasto caldo e gustoso, di una bibita fresca e magari di un parco giochi dove far divertire i bambini. Ma dietro quest’apparenza da Paese della cuccagna si nascondono rischi che vanno ben al di là di colesterolo alto o di qualche chilo di troppo. A denunciare il «lato oscuro» dell’hamburger e del pollo fritto ci ha pensato lo scrittore e giornalista newyorchese Eric Schlosser in Mondo fast food (Tropea, 320 pagine, 15,60 euro), un best-seller che ha infiammato l’opinione pubblica americana ed è appena arrivato nelle librerie italiane. Nato come inchiesta giornalistica per la rivista Rolling Stone, il saggio denuncia gli effetti devastanti che la moda del fast-food ha avuto sulla società americana: obesità al più alto tasso mondiale, sfruttamento di manodopera sottopagata, proliferazione di allevamenti industriali che oltre a provocare gravi danni all’ambiente mettono a rischio la sopravvivenza dei piccoli allevatori, diffusione di malattie infettive che colpiscono soprattutto vecchi e bambini. Di tutto ciò parlo con l’autore di questa approfondita inchiesta.
Signor Schlosser, quanti hamburger mangia un americano in una settimana?
«In media almeno tre “maxi-burger”, che non sono la stessa cosa di un buon hamburger fatto in casa. La diffusione della ristorazione veloce ha reso l’America il Paese col tasso di obesità più alto al mondo».
Quali altre conseguenze nocive può avere il fast food?
«Nel gennaio del 1993 un ospedale di Seattle ricoverò un alto numero di bambini affetti da diarrea con sangue. Avevano tutti mangiato in un ristorante di una catena fast food e i medici accertarono che negli hamburger lì serviti era presente il batterio Escherichia Coli 0157:H7».
Che danni provoca questo batterio?
«Si tratta di una versione mutante di un batterio che nel 4 per cento dei casi provoca la distruzione degli organi vitali. Attacca soprattutto i bambini, gli anziani e le persone con carenze immunitarie. Nel 1993 ne furono colpite circa settecento persone, residenti in quattro Stati della Confederazione, ma da allora al 2001 sono stati ben mezzo milione gli americani, per la maggior parte bambini, ammalatisi a causa di questo batterio. A migliaia sono finiti in ospedale e diverse centinaia di essi sono morti».
Come può accadere una cosa simile?
«Si comincia fin dall’alimentazione dei bovini. In America una legge vieta, dal 1997, che essi siano alimentati con carcasse di altri bovini, ovini, cani e gatti, mentre è permesso nutrire questi animali erbivori con carcasse di maiali, cavalli e volatili».
Lei è vegetariano?
«Niente affatto, e gli hamburger mi piacciono molto, anche se ormai non riesco più a mangiarli, con mio grande disappunto… Ma continuiamo a esaminare cosa accade nel corso della produzione degli hamburger e passiamo dagli allevamenti ai macelli. Qui può accadere che, durante la macellazione, il contenuto dello stomaco di un animale si sparga e contamini una parte di carne, che poi sarà mescolata ad altra carne sana, contaminandola tutta: basta un errore umano come questo, piuttosto frequente, per avere conseguenze drammatiche in tutto il Paese. Uno studio del 1996, svolto dal Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti, ha rivelato che un’alta percentuale dei campioni di carne bovina prelevati dagli allevamenti americani erano contaminati da Clostridium perfringens o da stafilococco aureo, oltre che da salmonella e Listerella monoctygenes. Un altro studio, sempre del Ministero dell’agricoltura, ha poi appurato che il 78 per cento della carne esaminata conteneva microbi che si propagano soprattutto attraverso la materia fecale. Lei mi ha chiesto perché un hamburger può farci ammalare, e io le rispondo: perché contiene escrementi!»
Il Governo di Washington non prende provvedimenti?
«Finora le grandi industrie produttrici di carne hanno goduto di un occhio di riguardo e sono state esonerate da tutti gli obblighi che invece altri produttori devono rispettare. Un potere dovuto al loro stretto legame con i membri repubblicani del Congresso, ai quali hanno fatto considerevoli donazioni».
Dunque in America i cow-boys rischiano l’estinzione?
«Proprio così. Le quattro principali industrie di carne degli Stati Uniti macellano l’84 per cento delle vacche del Paese, mentre otto imprese controllano il 66 per cento del mercato avicolo. È chiaro che una situazione del genere schiaccia i piccoli allevatori e agricoltori».
Ma questa situazione permette agli americani di mangiare hamburger grandi e belli a vedersi per pochi soldi…
«Certo, tant’è vero che in America a frequentare i fast-food non è, come avviene in Europa, la classe media – in Asia, anzi, è addirittura quella medio-alta, – ma il ceto operaio. Per i lavoratori più poveri, infatti, è molto più conveniente mangiare tutte le sere da McDonald’s piuttosto che fare la spesa al supermercato e cucinare a casa. I ristoranti, inoltre, sono accoglienti e puliti, un vero paradiso per i bambini: basta pensare che McDonald’s gestisce più di 8.000 parchi giochi nei suoi 28.000 ristoranti.».
I ristoranti fast food, però, danno da lavorare a migliaia di giovani.
«Il 90 per cento dei dipendenti di questi ristoranti sono pagati a ore, non sono protetti da alcuna garanzia sociale e lavorano solo quando c’è bisogno di loro. Le grandi catene fast-food disconoscono totalmente i diritti dei lavoratori. Nel 1999 in un McDonald’s degli Stati Uniti si organizzò un sindacato dei dipendenti, ma ovviamente ha avuto una vita breve».
I fast food, insomma, si reggono su regole proprie.
«Sì, e le impongono in tutto il mondo. I soli mercati che almeno in parte resistono alla diffusione dei fast food sono quello italiano e quello spagnolo. Perciò le multinazionali si apprestano a investire milioni di dollari in campagne pubblicitarie che mirano a conquistare questi mercati, puntando soprattutto ai bambini.
Ma qualcuno resisterà a questa pressione.
«Pensi che In America le grandi catene fast food sono arrivate al punto di farsi pubblicità persino dentro le scuole, il 30 per cento delle quali, del resto, offre “cibo veloce” nelle sue mense».
E i genitori non protestano?
«Qualche volta sì. Nel 1999, per esempio, si scatenò un’accesa polemica perché un libro di matematica era pieno di réclames della Nike e di McDonald’s».
[Emma Sancis – da il Giornale di Brescia]

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