Storie di città (resoconto sul Veg Festival)
26 settembre 2003Avevo una gran voglia di visitare il primo «Vegfestival» organizzato a Torino lungo un viale del Valentino, un piccolo villaggio nato per illustrare i vantaggi del mangiare vegetariano. Ma anche il timore che qualcuno, riconoscendomi, si mettesse a gridare, indicandomi, «C’è un cadaveriano tra di noi! Ha cantato le lodi del bollito misto! Diamogli addosso!». Timori infondati; se il ripudio del cibo di origine animale è una fede, si tratta di una religione mite, gentile, che non pretende di convertire con la forza gli infedeli ma di convincerli con argomenti solidi.
In questa prima rassegna i banchi che esponevano libri e opuscoli erano almeno pari a quelli che proponevano cibi. Non è solo una pratica ma uno stile di vita, una conversione che deve essere proclamata e servire da esempio. Come quelli che non si accontentano di andare in bicicletta ma ne fanno una filosofia. Ho così imparato la differenza fra vegetariano e vegano; il primo non mangia carne ma non ripudia i derivati animali come latte e uova, il secondo pratica invece un ideale di rigore assoluto.
Era vegano il ristorante allestito sotto un tendone che, mi dicono, ha servito il triplo dei pasti che gli organizzatori avevano previsto, spia di un successo che è andato oltre ogni più rosea aspettativa. Lo gestiva Cristina Gioanetti del «Sesamo’s Kitchen», che ha avuto la gentilezza di spiegarmi il contenuto dei piatti dei due menù proposti, Arca e Stella. Si rimane colpiti dallo sforzo che gli ideatori di queste portate fanno per imitare i cibi che mangiano i carnivori. Per esempio nell’insalata russa la maionese non è fatta con le uova ma con il latte di soia ma poi si usa la curcuma per colorarla di giallo e farla sembrare «vera».
Leggi sul menù «canapè di caviale hiziki» e pensi che le uova se sono di storione e non di gallina vanno bene. Invece no, il caviale hiziki è fatto con alghe giapponesi nere tagliate a pezzettini e condite con limone, olio, tanto aglio e prezzemolo. Sono le loro acciughe al verde. Il menù prevedeva anche gli «straccetti di seitan» che è un glutine di grano inventato dagli Avventisti del Settimo Giorno per venire incontro a un precetto religioso e che è la cosa più vicina alla carne di vitello, mentre il «tofu» è il loro formaggio, fatto con latte di soia cagliato con cloruro di magnesio o succo di limone.
Questo bisogno di mimetizzarsi della cucina vegetariana, quasi si vergognasse di proporsi nelle sue vesti originali, ricorda molti piatti della nostra cucina povera, tra cui gli stupendi «pes coi», i pesci cavolo, involtini di foglie di verza contenenti carne macinata, a imitazione di pesci pregiati fuori dalla portata economica.
Mia mamma friggeva metà funghi porcini e metà fette di melanzana e tutto sembrava fungo, come quando ad Alba mescolano i tartufi albanesi con un loro esemplare. Ma con i prezzi attuali delle verdure, conviene friggere soltanto funghi e far credere che siano tutte melanzane.
Uno degli argomenti forti usati dai missionari del vegetariano è il resoconto sulle condizioni atroci in cui vengono allevati gli animali in attesa di essere macellati. Enrico Moriconi, medico veterinario, consigliere regionale dei Verdi in Piemonte e promotore di «Vegfestival», ha scritto un libro per documentare le sofferenze inflitte agli animali, «Le Fabbriche degli Animali, mucca pazza e dintorni», pubblicato dalle Edizioni Cosmopolis, con un corredo di fotografie di grande impatto emotivo. Se uno lo legge e soprattutto se visita una di queste fabbriche, difficilmente poi torna a mangiare carne.
Come fare? Per latte, formaggio e uova non ci sono problemi, ma per la carne? Non si può tornare ignoranti o far finta di niente. Si potrebbe adottare un animale, seguirne passo passo la crescita, andarlo a trovare la domenica, ma poi finisce che ti affezioni e lo lasci morire di vecchiaia. A me piacciono molto le ali di pollo bollite e poi fritte nel sesamo: si potrebbe tagliargliele in anestesia al day hospital, tanto loro già prima non le usavano per volare, ma poi chi avrebbe il coraggio di guardare in faccia il pollo mutilato per il nostro piacere? Che guaio!
[da La Stampa del 26 settembre 2003 – di Bruno Gambarotta]